C’erano le “guardie ecozoofile”, l’indecifrabile “polizia locale”, un fastidioso elicottero che ha sorvolato il corteo dal primo all’ultimo minuto, le divise verde smeraldo
e fregi dorati della “polizia provinciale”, persino l’imbarcazione
delle forze dell’ordine che costeggiava il lungomare Cenide. Ma non una
ambulanza vera, che avrebbe salvato la vita di Franco Nisticò,
presidente del comitato per la statale 106, colto da un infarto sul
palco della manifestazione nazionale “Fermiamo i cantieri del Ponte”
mentre parlava della sua terra. Uno spiegamento di polizia e
carabinieri imponente, le comunicazioni precauzionali del commissario
prefettizio ai commercianti, le scuole chiuse, la popolazione in
allarme, la psicosi “black block”. Tutto tranne ciò che serve a salvare
una vita umana.
Franco Nisticò è morto a Villa San
Giovanni il 19 dicembre. La sua scomparsa è la più chiara e potente
metafora dei tempi malsani in cui delirio securitario e culto del
superfluo diventano letali. Esattamente come le grandi opere. “Dopo
avere ripetutamente richiesto l’intervento di un’ambulanza” protestano
gli organizzatori, “è giunto sul posto il camioncino sanitario della
Polizia di Stato, che è risultato però essere sfornito degli adeguati
strumenti di soccorso per la circostanza”. Minuti lunghissimi, fino
alla corsa in ospedale. Poi la notizia che tutti temevano.
Nisticò,
ex sindaco di Badolato, il borgo del catanzarese che anni fa per primo
accolse i profughi curdi, era il presidente del comitato per la messa
in sicurezza della statale 106, meglio nota come la strada della
morte. Un’arteria essenziale che parte a Taranto e termina a Reggio. Un
incubo che registra ogni anni molti incidenti. “Bellu lavuru”, lo
definì il boss di Africo, riferendosi all’opportunità – poi realizzata
– di infilarsi nei lavori per il rifacimento della strada, costruire
pericolosissime gallerie – tuttora esistenti – con calcestruzzo
depotenziato, ricordare ai calabresi che si trovano sotto il tallone di
un potere mafioso che impedisce loro di spostarsi in tranquillità.
Anche in seguito a quel procedimento giudiziario – appunto l’operazione
della magistratura “Bellu lavuru” – a Condotte fu ritirata per qualche
mese la certificazione antimafia. Condotte è una delle imprese che fa
parte della cordata di Impregilo. Dovrebbero costruire insieme il Ponte.
Il
popolo del “No Ponte” chiede esattamente che non accadano tragedie come
questa, solo l’ultima di una lunga serie di episodi di autoambulanze
che arrivano in ritardo, ragazzine che entrano in corsia per una
banale appendicite ed escono cadaveri in mezzo alla disperazione senza
consolazione dei genitori, parti che terminano in tragedia. Una scia di
sangue senza fine, una lunga teoria di diritti negati.
Basta.
Discutete pure di questioni geologiche e della fattibilità
ingegneristica. Ma da domani fatelo da soli. Qui il problema non è
l’“attraversamento stabile”, ma quel modello ormai intollerabile
che separa sudditi senza volto e baroni plenipotenziari. Per i primi
lacrime impotenti, per i secondi indifferenza e scuse balbettate con
sufficienza. All’estrema punta dello stivale, una nuova generazione
nutrita di studi universitari e rafforzata dal pendolarismo con le
città del centro e del nord ha reagito con compostezza, rabbia e
raziocinio all’ennesima tragedia provocata da un potere senza cultura e
senza compassione. “Proprio per questo non vogliamo il Ponte. Perché
non ne possiamo più di questo sistema che ci nega l’essenziale e ci
circonda dell’inutile”.
A Franco Nisticò andrebbe dedicata
la stazione marittima di Villa San Giovanni. Da sempre imbarcadero e
mai porto. Da domani, possibile vero esempio di servizio essenziale,
leggero, democratico, compatibile con l’ambiente, vicino ai cittadini. Il percorso del movimento è appena iniziato. Non si fermerà.
di Antonello Mangano
(www.terrelibere.org)