«Era il 27 giugno del 1980, un venerdì, ne sono certo. Erano passate da qualche minuto le ventuno, e quello che ho visto non l’ho mai dimenticano né raccontato a un magistrato né, tantomeno, a un giornalista. Mi fu consigliato di non parlare».
Siamo in Calabria, precisamente a Sellia Marina, provincia di Catanzaro. Su un terrazzo del villaggio turistico Hotel Triton c’è un imprenditore in vacanza con sua moglie. L’uomo, che oggi vive in Toscana, è di origini calabresi e nel giugno dell’Ottanta aveva trent’anni.
Alle sue spalle svettano le montagne della Sila e proprio di fronte i suoi occhi, il sole bagna, a poco a poco, il mar Ionio. Della tragedia di Ustica, del Dc9 Itavia, precipitato nel Tirreno con i suoi ottantuno passeggeri quella stessa sera e intorno a quello stesso orario (le 20.59), il testimone non sa nulla. Nessuno sa nulla. Nessun telegiornale ha ancora lanciato la notizia. Nessuno ha ancora iniziato le ricerche di quell’aereo che, dopo il tramonto, è scomparso dagli schermi radar.
«Quel giorno io e mia moglie eravamo in Calabria, a Sellia Marina precisamente, e alloggiavamo al Triton».
Comincia così il suo racconto inedito, che ascoltiamo solo trentuno anni dopo quella lunga notte. La stessa che quest’uomo non ha mai dimenticato.
«Prima di andare a cena eravamo sul terrazzo. Guardavamo le montagne della Sila, erano circa le 21 e 05, massimo le 21 e 10».
Guardando una cartina ingiallita dell’Igm, piena di appunti e di frecce, l’imprenditore si fa più preciso: «Guardavamo in direzione di Sersale e in lontananza, proprio verso la Sila, si vedevano come dei fuochi d’artificio. La cosa strana era che erano solamente orizzontali: raffiche velocissime che avevano lo stesso colore della luce emessa dalle lampadine a filamento, e quei bagliori sono durati almeno un minuto. Ho guardato meglio, c’era ancora luce, e ho visto che c’erano degli aerei in salita verso Crotone: ho avuto la sensazione che uno rincorresse l’altro sparandogli.
Dopo alcuni minuti, forse cinque, ma anche meno, ne ho visti altri due, li ho sentiti arrivare alle mie spalle, potrebbero aver sorvolato Catanzaro, venivano da Sud-Sud-Ovest. Volavano a bassissima quota, a pelo d’acqua e paralleli in direzione di Capo Rizzuto». [Guarda la ricostruzione]
Quell’immagine è, ancora oggi, chiara e ben fissata nei suoi ricordi. Il racconto appare genuino. Sembra non essere stato contaminato da nessun interesse. Il testimone, infatti, è un cittadino qualunque e di caccia e battaglie aeree, fino a quel momento, ne sapeva poco e niente.
«Sì, sono sicuro, quelli sul mare erano dei caccia militari, colore verde mimetico e sotto le ali non avevano coccarde. Negli anni successivi mi sono documentato, ho guardato decine di foto, per me erano due F-16. Poi mi hanno detto che di quel colore li avevano solo gli israeliani».
«Non le so rispondere, erano troppo lontani, ma sono certo che tra loro c’è stato un duello e in quello stesso contesto i due F-16 hanno avuto un ruolo».
L’imprenditore non parla di quel Mig 23 libico, entrato e uscito decine di volte dall’affaire Ustica. Lo tiene fuori dal suo racconto. Non vuole inquinarlo, ma è ben consapevole che per anni se n’è parlato e che proprio sulla Sila, a Colimiti di Castelsilano, in località Timpa delle Magare, si trova il punto dove ne furono rinvenuti i rottami.
Castelsilano: Ritrovamento Mig libico
Quel punto è a circa quaranta chilometri, in linea d’aria, da Sellia Marina.
Cinque minuti prima del passaggio dei due caccia sullo Ionio, guardando la Sila, quest’uomo vide il Mig e il suo inseguitore?
E’ probabile.
Non a caso quanto afferma combacia e conferma altre testimonianze, già agli atti dell’inchiesta di Ustica.
La nostra Aeronautica Militare ha sostenuto per anni che quel Mig libico finì lì il 18 luglio (tre settimane dopo la strage di Ustica), e che quell’incidente non aveva nulla a che fare con la sorte del Dc9. Di quel Mig sappiamo anche altro ma, per ora, vale la pena tornare alle parole del testimone:
«La mattina seguente, il 28, stavo rientrando in Toscana. Sull’autostrada per Cosenza mi fermai per fare rifornimento di carburante e al bar lessi su un quotidiano che era precipitato un aereo civile vicino all’isola di Ustica».
Il Mig entra nel racconto del nostro testimone tre settimane dopo: «Lo appresi leggendo il giornale. C’era un articolo che raccontava di un caccia libico trovato sulla Sila e allora collegai il fatto a ciò che avevo visto la sera del 27 giugno a Sellia Marina».
Fin qui abbiamo raccontato ciò che l’imprenditore ha visto, ciò che lo trasforma in un testimone oculare. Abbiamo chiesto a quest’uomo di sessant’anni, di cui preferiamo non fare il nome per ovvie ragioni (ma pronti a svelare l’identità qualora richiesta dai magistrati), di scremare il suo racconto. Di attenersi solo a ciò che aveva visto. Di far finta di non sapere di Ustica, di quel Mig e di tutto il resto. Ha fatto un grande sforzo e ha sempre percepito che ciò che riferiva avrebbe potuto avere il sapore del “solito racconto da mitomane”. Perché in questa storia, di personaggi così – falsi testimoni in cerca di notorietà – ce ne sono in ogni angolo.
«Mi creda, non avrei alcun interesse, alla mia età non mi metterei nelle mani di un giornalista. Ho una famiglia, una rispettabile azienda. Controlli pure. Non andrei a infilarmi in un ginepraio come questo solo per finire sui giornali. Non dica chi sono, non scriva dove abito, ma sappia che quello che le ho raccontato sono pronto a metterlo a verbale davanti ad un magistrato. Volevo raccontare quello che ho visto, anche se, a dire il vero l’ho anche fatto sebbene avessi seguito, in parte, il consiglio di un mio amico giudice. Lui, che oggi non c’è più, infatti mi sconsigliò di andare a testimoniare e lo ascoltai: non andai a testimoniare ma… un giorno telefonai al giudice Priore (Rosario, titolare dell’istruttoria sul disastro di Ustica, ndr). Non gli dissi il mio nome, perché avevo paura, erano decedute in modo sospetto delle persone legate a questo fatto».
Perché lo racconta a un giornalista, addirittura trentuno anni dopo?«Mi appassionai a questo fatto. Venni a sapere che il medico che per primo vide il cadavere del pilota del Mig disse che era deceduto da circa venti giorni. Sono calabrese, come quel dottore, e ho saputo, ma non so se è vero, che quel medico fu bastonato a sangue all’aeroporto di Caselle a Torino e poi costretto a cambiare versione e sostenere che quel cadavere non era in avanzato stato di decomposizione. A Sellia Marina, a due passi dall’albergo dove alloggiavo quella sera, in quegli anni c’era una base americana (in uso anche alla Nato, ndr): qualcuno è andato a chiedere se videro qualcosa? Ho appreso anche altro: alcuni militari in servizio in una base della nostra Aeronautica a Milazzo (di cui il testimone afferma di conoscere l’identità, ndr), dopo quella notte, furono trasferiti aFirenze, è vero?».
A questo punto del racconto abbiamo chiesto all’imprenditore di attualizzare la sua testimonianza. Mescolare ciò che aveva visto con ciò che ha successivamente sentito o letto: «Certo una convinzione me la sono fatta ma, ovviamente, è solo la mia opinione. Sicuramente quei caccia che inseguivano il Mig, erano degli F-16 e se non sbaglio gli unici ad avere quel velivolo nel 1980 erano gli israeliani. Perché nessuno li ha tirati in ballo? Non ho mai sentito parlare degli israeliani, sempre dei francesi e degli americani». C’erano anche gli israeliani in volo? Sebbene questa circostanza non ha mai ricevuto conferma da parte di alcun testimone, l’uomo potrebbe avere ragione. Questo, però, resta un sospetto. Dubbio che ha sempre sfiorato le indagini e velato le inchieste giornalistiche.
Le affermazioni di questo nuovo testimone, non sono supposizioni. Lui con la sua verità mnemonica coinvolge Israele, uno dei primi paesi a dotarsi di F-16 A/B Falcon. A ben guardare, i primi 75 con la colorazione mimetica, entrarono in servizio, proprio negli anni ’80 e ad Israele capitò di far a meno delle coccarde per compiere alcune missioni segrete. Una fra tutte, quella contro il reattore nucleare, costruito a Osirak in Iraq, con l’aiuto di tecnici italiani e francesi. Quale poteva essere la missione dei due F-16 avvistati sulla Calabria? Quel che appare certo è che non fosse rivendicabile e, a voler continuare con una congettura, magari proprio per colpire un trasporto di uranio verso l’Iraq o verso la Libia. Ciò che purtroppo, resta (col)legato alla realtà è che il tutto avvenne in un contesto di guerra, attraverso un’azione di cui il Dc9 fu vittima fortuita.
Quel Mig ha a che fare con Ustica e forse il leggendario vaso di Pandora è proprio il suo ruolo: come disse una volta Giovanni Spadolini ai giornalisti «scoprite cosa gli è successo e troverete la chiave per capire la strage di Ustica». L’Aeronautica afferma, da quell’estate dell’’80, che il caccia di Gheddafi cadde la mattina del 18 luglio e che il suo volo, non aveva nulla a che fare con la torbida vicenda del Dc9. Le cause della caduta, secondo l’arma azzurra, sono altrettanto chiare: era rimasto senza carburante. Lo pilotava Ezzedin Fadah El Khalil, 30enne siriano di origine palestinese. Forse ai comandi del Mig c’era lui. Un’altra ipotesi, perché tuttora, qualcuno sospetta invece che quel pilota, fosse italiano (indossava gli stivali e la tuta della nostra Aeronautica militare) e che in realtà stesse cercando di atterrare all’aeroporto di Crotone per rifornirsi. Il corpo di questo pilota viene successivamente trovato in avanzato stato di decomposizione, con evidenti tracce di putrefazione dei tessuti, tanto che ne risultò impossibile il prelievo delle impronte.
I due medici calabresi incaricati di eseguire l’autopsia, in una prima perizia, parlarono di “una morte risalente ad almeno venti giorni prima del 18 luglio”. Dopo, e successivamente alle “chiacchierate” pressioni esercitate sugli specialisti, è forte però il sospetto che (direttamente o indirettamente) furono costretti a scrivere una seconda relazione. Una nuova storia clinica del cadavere tanto da avere conclusioni diverse dalla precedente.
Per l’ordine obiettivo-storico dell’esame necroscopico, infatti, il cadavere, precedentemente in avanzato stato di decomposizione, è adesso “appena deceduto” e il sangue rappreso, liquido.
Quel Mig, vale la pena ricordarlo, aveva qualche buco di troppo sulla carlinga. Buchi, diranno gli esperti, compatibili con le traiettorie dei colpi sparati da un mitragliatore. Per l’Aeronautica (da sempre alle prese con l’incombenza, assai imbarazzante, di dimostrare il contrario), le lamiere del Mig al momento della caduta erano intatte. Strano poi apprendere che furono sottoposte ad alcuni esperimenti atti a verificare la capacità di penetrazione dei proiettili. A oggi, quindi, nessun mistero: a sparare fu l’Aeronautica dopo l’incidente per dei test. Punto.
Quel velivolo libico interessava a molti: alla Cia, ai nostri Servizi (il Sismi e il Sios) e a quelli di tutto l’Occidente; pure ai Carabinieri di Crotone che a fine giugno, lo cercano sulla Sila anche se, per anni, negheranno di essersene interessati. Un Mig che verosimilmente “buca” lo spazio aereo italiano mentre nel basso Mediterraneo è in corso un’imponente esercitazione della Nato denominata “Natinad Demon Jam V”.
La testimonianza di quest’uomo (attesta di aver visto quell’aereo e chi lo inseguiva, lo stesso giorno e alla stessa ora della tragedia di Ustica), si aggiunge a quelle già rese da altri calabresi. Spettatori che, da angolazioni diverse, videro più o meno la stessa cosa. Molti di loro non riuscirono, però, a consegnare agli inquirenti la certezza che quanto avvenne a Castelsilano era realmente legato a ciò che si verificò nei cieli di Ustica. Una mancata consegna da attribuire alla paura, alla scarsa memoria o, semplicemente, all’assenza di nessi.
Del resto, in questa storia, incerta è pure la traiettoria di volo del Mig, perché non sappiamo quanto videro i radar del basso Tirreno né cosa registrarono, da quelle prospettive, le stesse stazioni mentre il Dc9 si scontrava col suo destino.
Una conclusione la dobbiamo però ai periti: “non era possibile considerare congruente la traiettoria del Mig 23” con la traccia del radar di Otranto LJ054 che nella pasticciata relazione della Commissione italo-libica è attribuita al Mig. Quella traccia appare invece piuttosto compatibile con quella di un altro velivolo, diverso dal Mig 23, osservato da un teste oculare in prossimità di Capo Rizzuto. Gli stessi periti chiariranno poi, in un supplemento, anche come non era “comunque possibile addivenire a una risposta certa in ordine all’effettiva data di caduta del Mig”. Gli esperti Casarosa, Delle Mese e Held, incaricati dal giudice Priore di indagare sull’incidente di Castelsilano, concludono, infatti, che la ricostruzione della rotta seguita dal Mig è “incompatibile con la versione ufficiale fornita dai libici”.
Cioè quel caccia, tenuto conto del carburante imbarcato e delle caratteristiche della missione effettuata, non aveva sufficiente autonomia per coprire la tratta Benina (Bengasi)-Castelsilano, e che le caratteristiche della traiettoria di volo poco prima dell’impatto, ipotizzate dalla Commissione italo-libica (velivolo proveniente da Sud, pilota in stato d’incoscienza, motore spento), “non corrispondono a quanto osservato dai numerosi testimoni oculari”.
Ad allargare l’alone di mistero, già fitto intorno alla vicenda, è un biglietto scritto in arabo trovato tra i rottami del Mig. Nel gennaio del 1997 ne parla a Priore un ufficiale dell’Aeronautica in congedo, Enrico Milani. L’uomo visionò negli uffici del Sios quanto rinvenuto a Castelsilano e ciò che palesò, fa tremare i polsi: «riconobbi in una carta dei numeri scritti, stampati in arabo, pertinenti evidentemente alle tabelle di volo. Vidi poi un piccolo pezzo di carta bruciacchiato sito in un pezzo di busta lacerata. Questo pezzo recava delle diciture vergate a mano che recitavano una sorta di dichiarazione: “io sottoscritto pilota… colpevole dell’abbattimento e della morte di tanti…”. Si trattava di una dichiarazione di responsabilità, il nome del pilota, dalla dichiarazione, risultava essere “Khalil”». Ezzedin Fadah El Khalil.
E’ al generale Zeno Tascio, allora a capo del Sios (Servizio Informazioni dell’Aeronautica), che Milani avanza anche un’ipotesi, l’ennesima sul caso ma, come tutte, degna di nota. Quel pilota, secondo l’ex ufficiale, oltre la lingua araba conosceva anche i dettami dell’Islam.
Secondo l’ufficiale, coerentemente ai dettami del Corano e in obbedienza a un ordine impostogli dai vertici del regime del suo Paese, il pilota usò il biglietto per manifestare la volontà di espiare una grande colpa (aver abbattuto un aereo civile?) con un gesto suicida.
Milani dice anche altro: la “matricola” incisa sulla lamiera del velivolo era composta da due numeri, uno in cifre arabe, collocato a destra, e l’altro in cifre occidentali, a sinistra. Gli inquirenti, a questo punto, gli mostrano gli atti in loro possesso. Gli chiedono di confermare l’esatta corrispondenza con quelle che il generale Tascio gli fece vedere negli uffici del Sios. Lui risponde di no: “sono scritte sempre in arabo ma non sono quelle”.
Che fine ha fatto il biglietto scritto dal pilota? Cosa c’era scritto esattamente? Era una prova importante, ma come tutte le prove legate al caso Ustica fece una brutta fine. Ecco quale, dalle conclusioni del giudice Priore: “È difficile poter dire quale fosse l’esatto contenuto di questo scritto. Di certo esso esisteva, ed è stato fatto sparire. Di certo esso conteneva una sorta di invocazione di perdono, e per questo motivo si è temuto che potesse divenire di pubblico dominio.
A cosa si riferisse non è però possibile dirlo con certezza. Potrebbe essere una specie di preghiera che ogni buon mussulmano, in particolare se rischia la vita con la sua attività e se tale attività cagiona o ha cagionato morti, porta con sé”.