Dalla Curva

Un’aquila con le stampelle

Un pezzo di cuore che lacrima per il Catanzaro; la voce del tifoso…
di F.G.

Amo il calcio. Amo il Catanzaro.
La prima volta che li ho visti erano insieme, a braccetto, e il connubio era una meraviglia.
Perché anche se hai cinque anni e non paghi il biglietto certe immagini ti restano nella mente e nel cuore.
Davanti a te hai la grinta di Corino, l’esplosività di Zunico, la classe e i gol di Palanca; i tuoi eroi sono ovunque, corrono mezzo metro sopra i fili d’erba del Comunale.
Gli occhi brillano e non puoi far altro che innamorarti del soccer, cedere alle dolci avances di una domenica pomeriggio trascorsa allo stadio.
A distanza di quasi 20 anni da allora, mi trovo nella condizione di voler tornare bambino, non solo per evadere dalle crescenti responsabilità e mangiare le “scilatelle” fatte in casa da mia nonna, ma anche per ri-scoprire questo gioco meraviglioso.
Questo scappare dal presente è solo in parte nostalgia, non è un capriccio, è soprattutto un’intolleranza. Un’intolleranza alla mancanza di rispetto.

Quello del tifoso è un sentimento vero, e non esiste bassezza e viltà paragonabile al giocare coi sentimenti.

E se anche ad un dirigente non importasse niente dell’aspetto sentimentale / emotivo del tifoso, dovrebbe comunque tenere a mente che la fedeltà e la soddisfazione del tifoso si traducono in
“flussi di cassa” per la società. Ma questo circolo virtuoso non si innesca.
Forse gesto di pari viltà esiste: porre sul banco degli imputati la squadra, ragazzi che stanno dimostrando coraggio, abnegazione e dedizione alla causa giallorossa.
Tutti quanti, dal primo all’ultimo, stanno dando il massimo.

Durante la sesta battaglia dell’Isonzo, nel corso del primo conflitto mondiale, Enrico Toti, arruolato come bersagliere ciclista e mutilato di una gamba, venne ferito più volte dai colpi avversari, e con un gesto eroico, scagliò la gruccia verso il nemico, poco prima di essere colpito a morte.
Allo stesso modo, vedo idealmente i vari Emanuele, Luca o Fabio (volutamente chiamati per nome) brandire la loro stampella a mo’ di spada o di alabarda, e scagliarsi contro avversari pericolosamente armati.
Mandati allo sbaraglio e abbandonati al loro destino, anche loro meritano rispetto.

E fino a quando manterranno vivo il loro ardire, il coraggio di lottare, fino al giorno in cui la loro casacca giallorossa sarà sporca di sudore e fango avranno tutta la mia stima ed il mio sostegno.
Che invece non avrà mai chi non ha ammesso i propri errori, e persevera diabolicamente negli stessi, dietro le scrivanie di via Lombardi. Ma qui sconfiniamo nel pleonastico. E nel tragicomico.
Preferisco immaginare una squadra “Città del Sole” – style, in cui un carismatico Pierotti vesta i gradi di capitano giganteggiando sugli avversari e un gagliardo Miceli sia in grado di sdoppiarsi nel ruolo di intenditore e di ottimo playmaker.
Uno scenario più volte indicato dal sognatore pernicioso ma pertinance “Rob”.

Confutando chi affermò che “ciò che nacque dalle utopie non fu il cielo in terra bensí l’inferno di una spietata tirannide” (Karl Popper).
Io sono come Roberto, desidero quell’utopia, la bramo ardentemente.
La verità è che mi piacerebbe acquistare un quotidiano sportivo al lunedì mattina e leggere con orgoglio una classifica diversa da quella a cui siamo abituati da un po’ di tempo a questa parte, e senza ricorrere ad escamotage del tipo capovolgimento di giornale o correzione a base di grappino.
Mi piacerebbe non provare quel sentimento misto di rabbia e vergogna che contraddistingue i miei sabati/domeniche pomeriggio.
Mi piacerebbe che questo strazio fatto di una serie infinita di sconfitte, di promesse non mantenute, di esoneri, di mancate ammissioni di colpa e di fallimenti tecnici non fosse mai avvenuto.

Mi piacerebbe non aver voglia, già a Dicembre, che il campionato termini al più presto per metterci una pietra sopra, per consegnare questa stagione, come la scorsa, ad almanacchi che non verranno mai più aperti né ritrovati. Archiviare tutto, in fretta.
Neanche come monito a chi verrà, molto spesso si dice: conosci la storia, per evitare che le pagine più buie possano riproporsi nuovamente. Ma questa volta no. Tutto sarà rimosso.
Perché non è accaduto. E’stato solo un incubo.
Tra poco sarò sveglio.
Sono allo stadio. Ho ancora cinque anni. Tira una leggera brezza che muove le bandierine gialle del calcio d’angolo.
Il Ceravolo è una bolgia, una sinfonia di emozioni che si sovrappongono in un freddo pomeriggio di domenica. Il contrasto tra il cielo grigio e i colori raggianti della Curva Ovest è accecante.
Palanca raccoglie tra le mani il pallone nel campo per destinazione, nei pressi dei cartelloni pubblicitari.
Con delicatezza lo appoggia sulla lunetta del calcio d’angolo. Fa uno, due, tre passi indietro, volge lo sguardo verso l’area di rigore affollata, poi verso la porta avversaria.
All’estremo difensore non resta che farsi il segno della croce.

Francesco Guerrieri

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Redazione

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