Una piccola leggenda catanzarese…

Clemente Giglio ci racconta, fra il serio ed il faceto, una splendida passione

Sulla home
page più giallorossa del mondo ho letto tante testimonianze della nostra
passione e ne ricordo diverse: quella che fa da cornice alle emozioni dello
stadio, descritta con rara efficacia da Barbara ed Ylenia; le spigolature
pungenti ed a volte caustiche di Antonio; il bellissimo, surreale “viaggio
interiore” di Nicola; la lunga attesa insonne di Gennaro; il sagace (e audace…)
accostamento di Piero tra un gol segnato ed un orgasmo.

Tanti altri amici hanno raccontato
e si sono raccontati e di esperienze vissute questo
forum è pieno come lo è il nostro animo di voglie tinte di giallo e di rosso.

Ora però, vorrei provare a
portarvi un pò più in là con la fantasia, raccontandovi una piccola favola che
si confonde con la realtà, ma che in fin dei conti assume
i connotati di una vera e propria leggenda: la leggenda di Barcollomanonmollo.

Barcollo nasce a Catanzaro da una
famiglia catanzarese di generazioni; cresce, va a scuola, comincia saltuariamente
ad interessarsi al magnifico spettacolo che si celebra su un grande
prato, attorno al quale si confondono tra loro rumori, colori, gioie e dolori.

Passano alcuni anni e Barcollo, ormai
entrato nella fase dell’adolescenza, continua un pò alla volta a legare il suo
piccolo io a quel meraviglioso,
romantico gioco, né più né meno degli altri bambini, quelli che Osvaldo Soriano
diceva “date loro un pallone con cui
giocare e li renderete felici
”.

Una storia normale, come tante,
come quelle di tutti noi, direte: andiamo avanti.

Il padre, grande
tifoso sin dai tempi della gloriosa Catanzarese,
nonché brillante oratore di cose calcistiche di piazza – alla pari di altri in
famiglia – ripone su Barcollo le proprie convinte speranze di farne un giovane
Tribuno della nuova generazione di sostenitori, quella che cresce in tempi di
magra, che non ha mai visto il grande Catanzaro, lontana dai fulgidi anni della
“A”.

Così, preso in
un vortice di delirante ambizione, dismette i consueti panni del valido ed
infaticabile medico per indossare quelli infausti
del manipolatore
genetico, con l’idea ossessiva – confortata da una nutrita progenie di
fanciulle-valchirie dal biondo crine e dall’occhio ceruleo – di dimostrare la
superiorità della razza catanz-ariana.

Machiavellicamente, mette le
proprie conoscenze scientifiche al servizio di un folle, spaventoso  esperimento: iniettare
nel plasma del suo unico figlio maschio un micidiale concentrato di succo di
limoni di Sellia Marina, cuore di patate di Decollatura e peperoncini piccanti
di Borgia, trattato con misteriose sostanze chimiche, che alla fine di
periodici cicli porti al risultato finale, quello che lui stesso definirà un
giorno con la sibillina frase: “nelle
vene di mio figlio deve scorrere sangue giallorosso!”.

Come ogni delicata sperimentazione
scientifica impone, occorrono delle cavie: si offrono volontari due noti
cittadini catanzaresi, i Sigg.ri Mandarino e Paparazzo. I risultati vengono studiati a fondo e decodificati con attenzione, fino
alla conclusione definitiva: l’esperimento viene considerato soddisfacente.

In
attesa dei primi effetti, all’improvviso, in un tiepido giorno di primavera,
arriva il momento fatidico: sono le otto di mattina, Barcollo si trova nei
pressi della scuola quando viene “fulminato”
sulla via Buccarelli, più o meno come accadde a San Paolo da qualche altra
parte, getta via i libri, si mette a correre su per la salita de’Barracchi,  raggiunge lo stadio, scavalca l’inferriata,
si arrampica sui gradoni ed entra in campo: lì si ferma, si guarda attorno, rilassa
i muscoli tesi e la mente sconvolta, chiude gli occhi e vede l’intera storia di
quella piccola grande squadra di provincia scorrergli davanti; da quel momento
la sua esistenza sarà scandita da un solo credo: “Catanzaro, io ti onorerò”.

Gli effetti delle manipolazioni
cominciano presto a manifestarsi e Barcollo inizia a subire i primi mutamenti,
come un novello Dr. Jekyll-Mr. Hyde: nei momenti più impensabili si trasforma,
diventa impulsivo e imprevedibile, a volte volgare; un giorno, la più piccola
delle sorelle gli chiede di leggerle la favola di Gulliver, ma la risposta di Barcollo è secca e impietosa: “te la leggi da sola; per quanto mi riguarda, questo qui a Pino Lorenzo
gli fa una pippa! Ed anche a Gianni Bui.”

Una mattina di domenica la madre
lo chiama: “ricordati che siamo a pranzo da zia”; la reazione
di Barcollo è rovinosa: di fronte al tangibile rischio di perdere la partita
della sua beneamata, dopo aver frantumato contro una parete un intero servizio
di calici di cristallo, si infila nella ghiacciaia per due ore e tre quarti; il
febbrone a quaranta che ne segue lo “costringe” a casa, ma appena uscita la
famiglia, corre in strada, tira fuori il pollice e viene caricato dal celebre
motocarro del Grande  Don Ciccio ‘U bumbularu che lo conduce diritto ai “Distinti”, dove può assaporare il suo
imperdibile rituale.

Ma
questo è niente: siamo nel maggio 2001, per tre giorni e tre notti Barcollo si rinchiude
nella propria camera e non da più notizie di sé. I genitori, preoccupati, si
consultano: “sarà
una crisi adolescenziale, forse il primo amore”
, minimizza il padre; ma la
mamma è sempre la mamma, avvicina l’orecchio alla porta e lo sente pregare,
rimane nel dubbio per un pò, poi decide repentinamente di entrare. La scena che
le si presenta è da Purgatorio dantesco: in un
tripudio di bandiere con l’effigie dell’aquila, ceri accesi, effluvi di incenso,
Barcollo è in ginocchio, le mani giunte, davanti a sé il santino-poster di San
Vitaliano con la maglia di Palanca, le sue parole, appena sussurrate: “l’attesa si accorcia, vicina è l’ora; fa’  che Di Corcia ci pieghi il Sora”.

Purtroppo il caso vuole che il
micidiale esperimento sfoci, col passar degli anni, in
effetti
drammaticamente imprevedibili; mentre Barcollo comincia a
sviluppare il naturale senso di rivalità con le altre squadre calabresi, il suo
fisico sviluppa parallelamente inumane capacità di trasformazione.

Una equipe
di scienziati transalpini, informati direttamente dall’ormai sempre più
preoccupato genitore, stabilisce che gli effetti sono direttamente proporzionali
alle emozioni negative del soggetto: odio, antipatia ed accanimento, se
combinati insieme, possono portare a conseguenze devastanti, che puntualmente tali
saranno allorquando alcuni ignari e sciagurati sostenitori del Cosenza
decideranno di infierire sul sito del provato popolo giallorosso, proprio nello
stesso  pomeriggio della sfortunata
finale del 2001.

Barcollo arriva al limite della
sopportazione: è intrattabile, teso come una corda di violino e un bizzarro
scherzo del destino vuole che quella sera in TV venga
trasmesso l’ultimo remake di “Godzilla”.

La reazione è scontata; da quel
preciso momento, nel cervello di Barcollo ci sarà solo un’idea
che…gira…gira…gira: fare realmente nella città silana quello che Godzilla
aveva combinato a New York!

La miscela di emozioni
negative è ormai al culmine: neanche fosse l’incredibile Hulk, Barcollo subisce
un’esplosione fisica raccapricciante, in pochi minuti raggiunge i novantadue
metri d’altezza, sputa fiamme dalla bocca, sradica cinque ulivi con un paio di
starnuti, manda in frantumi le finestre di un palazzo con un rutto; poi parte
di corsa e in soli quindici minuti raggiunge il centro della odiata provincia
rivale.

La catastrofe sarebbe inevitabile
se non fosse che l’equipe di ricercatori, consultato
via internet un luminare della psichiatria moderna collegato da Boston, decide
in pochi minuti la contromisura: lobotomizzare la mostruosa creatura e renderla
innocua con la proiezione su schermo gigante in Piazza Kennedy della tripletta
di Surro nel derby del 18 novembre 1984.

Il risultato viene
insperatamente ottenuto a tempo di record: di fronte a quelle immagini Barcollo
sprofonda in un torpore estatico, un sorriso ebete gli solca il viso, si
addormenta e cade in letargo per sei mesi. La città silana è salva.

Da quel giorno, fortunatamente,
l’antidoto funzionerà e l’incolumità delle popolazioni calabre sarà conservata
senza ulteriori pericoli.

Ma una
leggenda non la puoi fermare: come una cascata d’acqua che per natura si
autoalimenta nel suo perenne e dirompente precipitare verso valle, così una
leggenda, piccola o grande che sia, si nutre di se stessa e vola lontana,
perenne e dirompente, nell’immaginazione degli uomini.

E’ un tranquillo pomeriggio invernale
quando Barcollo va via da casa e non vi torna per giorni; le forze dell’ordine,
chiamate immediatamente all’intervento, setacciano il territorio, ma niente da
fare. Poi, dopo circa un mese, un’anziana signora impegnata a stendere i panni all’ultimo
piano di un condominio di via Paglia, scorge in lontananza
un movimento sul pino della Curva Massimo Capraro: era Barcollo, accovacciato
nel nido da lui stesso costruito per covare tre piccoli aquilotti rimediati da
un sinistro mandriano di Taverna. Richiesto del perché di tale gesto, lui
risponde: “continuate
a  rompere le palle con i panda, le foche,
le balene e non vi accorgete che la sola specie da salvare ad ogni costo dall’estinzione
è quella delle aquile”.

Natale 2003. Una comitiva di
pensionati recatisi al Sacro Santuario della Madonna di Porto, vi trova un
giovane genuflesso intento in preghiera: era Barcollo, che colpito da
un’improvvisa crisi mistica, si rivolgeva alla Santa Vergine perché proteggesse
i deboli, gli indifesi, i diseredati e Giorgio Corona.

Potrei continuare con una serie
infinita di aneddoti,  ma la vita reale non è una fiaba, è fatta di
tempi e di spazi.

Sto vivendo una stagione
emozionante, intrisa di gioia e sofferenza; sto impregnando di speranza il mio
malandato cuore di tifoso e quando avrò momenti di delusione e scoramento, penserò
a lui, Barcollomanonmollo, il bambino che da semplice tifoso divenne piccola leggenda
di provincia, giovane eroe di tante favole in giallorosso…e che un giorno disse
a se stesso: “Catanzaro, io ti onorerò”.

                                                                                                          Il Monco

 

 

Autore

Redazione

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