Ho letto con interesse che Daniele Rossi ha inviato, tra le altre, alla nostra redazione. La lettera dell’erede del cavaliere Guglielmo Papaleo – preliminarmente va detto uno degli insostituibili sponsor di questo portale – ha un incipit forte e per certi versi inedito.
«Perché in Calabria non scoppia una rivoluzione civile?» si chiede Rossi, che poi, dati alla mano, procede a illustrare senza mezzi termini il “fallimento della Calabria“. Fallimento che sarebbe sancito formalmente da tempo, se la nostra regione fosse un’azienda. Fallimento che è comunque sostanziale perché la Calabria oggi non produce sufficiente ricchezza per mantenersi, non esporta, non offre lavoro e presenta interi comparti rasi al suolo (dall’edilizia al turismo).
Rossi biasima il teatrino della politica e lancia un appello ai giovani affinché siano sempre liberi di scegliere il proprio futuro, “non devono essere gli altri a scegliere per loro” scrive, e favoriscano una “vera rivoluzione nei contenuti e nel metodo dell’agire politico“.
Approfittando dello spazio e della libertà che Uscatanzaro.net offre ai propri redattori, provo a raccogliere questo appello e a rispondere innanzitutto alla domanda iniziale. Perché in Calabria non scoppia una rivoluzione civile?
Daniele Rossi è un imprenditore calabrese che vede nel resto d’Italia e del mondo l’orizzonte del proprio mercato ma la sua città rimane Catanzaro, che è anche la mia città e quella della maggiorparte dei lettori (ovunque essi si trovino) del nostro giornale. Perciò immagino comprenderà le ragioni che mi portano a utilizzare la realtà del capoluogo come architrave di questo pezzo.
Rivoluzione è parola da prendere sul serio, anche se affiancata da un termine cui tendenzialmente si chiede di limitarne la portata. La rivoluzione, pure quella civile dunque, pretende innanzitutto un cambiamento radicale. E chi vuole il cambiamento radicale è destinato a scontrarsi con le forze conservatrici che sono quasi sempre quelle dominanti.
Allora, dove risiedono oggi le forze conservatrici nella nostra città? Di sicuro, proprio come a livello regionale, nella politica -e qui la sintonia con Rossi è assoluta – che da decenni, senza distinzione alcuna di parte, rimbalza responsabilità e perpetua un sistema incapace di risolvere anche i problemi più semplici. Ma poi?
Poi c’è un blocco complesso e variegato di liberi professionisti, burocrati, pezzi di clero, criminalità spicciola e criminalità organizzata, cricche semiclandestine di semianalfabeti che giocano alla massoneria e imprenditori. Sì, imprenditori.
Perché anche nella categoria che Rossi rappresenta, esistono – tra i molti quasi eroi considerato il contesto in cui operano- personaggi che temono la rivoluzione più di ogni altra cosa al mondo. Più della crisi, più delle tasse, più della burocrazia, più dei proiettili. Per loro rivoluzione significherebbe rinunciare a quella carta dal credito quasi illimitato chiamata “Catanzaro”. La carta che gli permette di superare praticamente indenni ogni crisi, che consente loro di fare spallucce davanti allo spread che impenna.
«A Catanzaro esiste un comitato d’affari che si spartisce da anni la ricchezza della città». Quante volte abbiamo sentito questo ritornello? Addirittura il giornalista Peppe Rinaldi ora a Libero– mica al Manifesto- è arrivato a intitolare un suo articolo sulla questione “La Dinasty di Catanzaro“. In quel pezzo Rinaldi scrive:
“Chi comanda a Catanzaro? E, soprattutto, perché? Sono tre le famiglie portanti, l’architrave che regge le volte del potere. Parliamo degli Speziali, degli Abramo e dei Noto. Monarchie articolate e pezzi di economia sottoposti al controllo delle varie generazioni che si sono succedute. Un’economia che non ha bisogno della politica, una politica che ha invece bisogno dell’economia e tutte e due che si baciano ed abbracciano all’occorrenza”
Pur dando per scontata l’estrema concentrazione della ricchezza nella nostra città, non sappiamo – nel senso che non abbiamo le prove per sostenerlo pubblicamente- se una commistione tra politica ed economia ci sia e se abbia la portata che Rinaldi e la gente comune pensano. Non sappiamo se “il partito degli immobiliaristi” (una cricca di proprietari di immobili concessi in fitto alla Regione) cui fece cenno Agazio Loiero il primo giorno da ex Presidente spiegando la sua caduta, esista davvero. Ma una certezza comunque l’abbiamo: esistono politici e amministratori da anni sulla breccia che non sono stati capaci di incidere positivamente sullo sviluppo della città. Che anzi l’hanno oggettivamente danneggiata con scelte, a voler essere magnanimi, sbagliate.
Chi ha deciso per esempio di sviluppare la città verso il quartiere di Germaneto ad una velocità inaudita, e perché? Per quale ragione il capoluogo della Calabria non ha una stazione ferroviaria degna del suo nome? Chi ha deciso che quartieri strategici (in quanto naturali vie verso il mare del quartiere Lido) come Pistoia e Aranceto dovessero finire in mano all’illegalità sin dall’inizio (ricordate quell’assegnazione senza il rispetto delle graduatorie)? Perché Catanzaro ha il mare ma non ha un porto vero? Chi ha ucciso il centro storico? Di chi è la responsabilità di uno stadio di calcio privato di un intero settore da oltre tre anni, con dei container al posto di spogliatoi e sala stampa? Chi ha ferito a morte il trasporto locale? Chi ha portato al collasso numerose partecipate?
Ecco, non possiamo al momento dimostrare che questo o quel consigliere comunale, provinciale, regionale, deputato o senatore siano referenti di questo o quel gruppo di potere ma possiamo almeno collegare i politici e gli amministratori di lungo corso della nostra città alle macerie che oggi abbiamo davanti. Questi signori hanno devastato o non sono stati capaci di evitare la devastazione. La rivoluzione civile potrebbe dunque partire da qui: dalla decisione di allontanarli dalla gestione della cosa pubblica ed escluderli per sempre dalle competizioni elettorali.
Competizioni che, diciamocelo pure visto che siamo morti che camminano (“la Calabria ha un tumore in metastasi” scrive Rossi), sono da anni una farsa perché fondate quasi esclusivamente sul bisogno e non sulla libera scelta. I voti non si contano per quartieri. Non ci sono zone rosse o azzurre. I voti si contano per nuclei familiari, per clientele e a volte addirittura per business unit, tanto per usare un termine noto nel mondo imprenditoriale. La promessa di un lavoro precario – quando non direttamente cinquanta euro in contanti- vale spesso il voto di una famiglia intera. E se il lavoro arriva, il voto è per sempre.
Non a caso in tempo d’elezioni si sente dire: “sono impegnato” e non semplicemente: “ho scelto“. Se a Catanzaro notate un politico con un pacchetto di voti da primatista, allora ci sono molte possibilità che non si tratti di un campione della democrazia.
Per spezzare la catena del bisogno e cominciare davvero a scegliere, come auspica Rossi, servirebbe creare sviluppo e per creare sviluppo (o almeno provarci) andrebbe cambiata classe dirigente. Insomma, il meccanismo è perverso e collaudato. Come se ne esce?
Probabilmente anche coinvolgendo i catanzaresi lontani dalla Calabria. Quelli che partendo – recidendo così volontariamente o meno, con soddisfazione o meno, molti dei loro vincoli affettivi – sono riusciti a recidere anche i legami maligni di cui s’è detto finora.
Se un tempo le rimesse degli emigrati garantivano la sopravvivenza economica di intere comunità del sud, ora devono essere contributi di altro tipo a scongiurarne la scomparsa.
La libera coscienza e l’abitudine a una democrazia meglio compiuta, ad una realtà in cui non sempre il diritto viene scambiato per semplice favore, senza retorica possono essere molto utili alla causa.
Grazie al web è oggi possibile creare masse critiche del tutto nuove e indipendenti. Comunità come quella che ospita questo portale, capaci di mobilitarsi e sostenere economicamente, umanamente e culturalmente chi intenda rivoluzionare o anche solo tradire il sistema fallimentare che ha allontanato generazioni di catanzaresi dalla città. Una contro-lobby insomma, che chieda conto giorno dopo giorno dell’operato degli amministratori catanzaresi. Che abbia la forza di concentrarsi su obiettivi concreti: penso per iniziare alla diretta streaming dei consigli comunali, all’accesso super-semplificato ad ogni atto dell’amministrazione, alla trasparenza garantita ad ogni livello. Una contro-lobby che sia in sostanza il cane da guardia della politica.
Sì è vero, questa espressione dovrebbe riferirsi all’informazione, ma anche in questo campo -fatte salve pregevolissime eccezioni- equivoci, incapacità e conflitti d’interesse rendono tutto molto complicato.
Così dalle nostre parti accade che un comunicato politico sia generalmente scambiato per una notizia e lanciato in un oceano di comunicati oltre i quali non c’è spazio per uno straccio di analisi, per un’inchiesta complessiva, per una verifica reale (se non, al più, della fonte). Questioni serie che magari riguardano la gestione del potere vengono in questo modo facilmente disinnescate e ridotte a storielle di costume.
Perché quindi non scoppia una rivoluzione civile? Perché Catanzaro, come la Calabria tutta, ha ingranaggi consolidati ed efficienti al servizio di pochi. Perché anche nel terzo mondo c’è chi fa affari d’oro (anzi, questi affari sono spesso ancora più convenienti) comprando tutto ciò che è in vendita e molto di ciò che in vendita non dovrebbe neppure essere. Perché esporsi, per troppi, significa farsi fuori, escludersi da un’ipotetica e improbabile scalata al successo che potrebbe includerli un giorno o l’altro. Perché continuano a reggere ancora i nonni, i padri, le vecchie zie. Sono le loro pensioni, i loro stipendi pubblici, le loro case acquistate decenni fa ad assicurare che il sistema non collassi.
Ma questa garanzia, lo sappiamo tutti, ha un tempo estremamente limitato. Quando scadrà, un nuovo sistema non si potrà certo fondare sugli stipendi di un call center o sulle paghe misere di lavoratori precari e poco qualificati. Allora sì che sarà rivoluzione.
E mantenerla “civile” sarà di certo la vera sfida.
f.scarfone@uscatanzaro.net