Dalla Redazione

Un viaggio

Scritto da Redazione
Gli amici di Torino, i treni notturni, la sosta a Benevento, il minuto di raccoglimento, il lutto al braccio, la vittoria a Lecce. A un anno dalla scomparsa, UsCatanzaro.net ricorda Carlo La Forza attraverso il racconto di Alberto Capano e i ricordi di una giornata indimenticabile
 
carlo

È passato un anno da quel maledetto 15 settembre. Sembrava una giornata di festa col gol pazzesco di Martignago che aveva regalato tre punti al Catanzaro contro il Frosinone. Poi in serata la notizia dolorosa. Un amico se n’era andato, a 38 anni, in silenzio. Quel 21agosto53 che avevamo imparato a conoscere e a leggere sul nostro forum ci aveva lasciato, a poche settimane di distanza dalla sua ultima richiesta: un abbonamento al Catanzaro da lasciare in eredità a suo figlio. In poche ore la sua storia aveva fatto il giro d’Italia. Quell’ultimo gesto verso la sua squadra e verso la sua famiglia era un atto d’amore universale. La storia di Carlo La Forza era così potente da scuotere anche la storica ottusità dei vertici del calcio italiano. Una settimana dopo al Catanzaro veniva concesso di giocare col lutto al braccio e di osservare un minuto di silenzio prima della partita col Lecce. Una lunga settimana che culminava in 90 minuti di passione ed emozioni. È questo il cuore del racconto, Un viaggio, scritto da Alberto Capano, che ci riporta a un anno fa. È questo il ricordo che UsCatanzaro.net vuole dedicare al suo Carlo. Un anno dopo.

Nella giornata di oggi, lunedì 15 settembre, due celebrazioni ricorderanno Carlo La Forza, unendo idealmente l’Italia intera. La prima si terrà a Milano alle 8.30 di mattina nella Basilica di San Paolo Apostolo, a Piazza Caserta (metro Istria). La seconda si svolgerà nel tardo pomeriggio, alle 18.30, nel Duomo di Catanzaro. Amici, conoscenti, lettori di UsCatanzaro.net e tutti i tifosi giallorossi potranno partecipare per ricordare un ragazzo come noi.

Red


UN VIAGGIO 

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Le mani di Roberto avvolgevano con forza il bicchiere di birra spillata da Beppe. Il pub era sempre quello, in via Madama Cristina. Via Madama e basta per i torinesi. Dopo la chiusura dei Fratelli Marx da quasi 5 anni ci si incontrava al Bistrot, strano nome francese per un pub che di francese non aveva proprio niente. Non si mangiava neanche troppo bene. E c’erano poche varietà di birre. Ma i titolari, calabresi, ci facevano sentire come a casa. Inoltre le TV che trasmettevano le partite erano grandi e questo ci bastava.


Il Gruppo Torino
. Gruppo che non aveva niente di ufficiale, né una sciarpa, né una tessera, neanche un cappellino. Un piccolo tentativo poi fallito di fare una maglia e poi nulla. Quasi nulla. Solo uno striscione, una “pezza” anzi, come si dice in gergo ultras, disegnata da Claudio, il “giallorosso-torinese 100%” con la passione per la grafica. Ma eravamo lo stesso un bel gruppo. Goliardico, simpatico, innamorato ognuno per un personale motivo di quei due colori. Chi per residenza, chi per provenienza dei proprio genitori, chi per empatia.

lecce_cz_11Secondo me dobbiamo andare”, disse Roberto sorseggiando la sua terza media. Certo che dovevamo andare, lo sapevamo tutti che dovevamo andare. Ma era solo una questione di trovare la forza per farlo. Il posto da raggiungere era Lecce. Domenica ci sarebbe stata la prima partita senza Carlo. La Lega Calcio aveva concesso alla Società di poter effettuare un minuto di silenzio. Non capita spesso. Ci sarebbe stata una forte commemorazione. La squadra con il lutto al braccio. Una sorta di onorificenza, rara, preziosa per un semplice tifoso.

Già Carlo.

Se sapesse Carlo cosa aveva combinato! Lui, sempre così discreto e riservato. Così dolce e pacato. Non si arrabbiava mai Carlo. Solo se il Catanzaro perdeva restava senza parole. Nei tuoi momenti di collera ti spiazzava con un sorriso. E invece per una settimana l’Italia aveva parlato di lui. Articoli di giornali, trasmissioni radiofoniche, testate web, sportive e non. 

carlolaforzaSi era parlato del suo gesto d’amore verso un figlio e verso una squadra di calcio. La sua fretta per avere quell’abbonamento, quella sua ansia di non riuscire ad averlo in tempo per lasciarlo in eredità al figlio. Perché? Me lo sono chiesto spesso. In un contesto drammatico come quello cosa ti porta a pensare ad una cosa apparentemente banale come un abbonamento.

La risposta c’era eccome. Carlo soppesava tutto. Non lasciava niente all’approssimazione. Era un pianificatore nato. Un ingegnere. Una testardaggine e una determinazione unica dietro un carattere pacifico e serafico. E il buon Carlo sapeva già che un bimbo quando non ha più il padre, crescendo, ha bisogno di ricordi, di riferimenti, di punti di contatto con la vita che conduceva il papà stesso. E allora perché non legare il ricordo alla sua passione più forte: il Catanzaro!

Questo maledetto Catanzaro… che amava da impazzire. Non c’è altra definizione per descriverlo. Carlo non seguiva il Catanzaro perché era un ultras, per conoscere nuove persone, per moda o per hobby. No! Semplicemente per amore. Era una enciclopedia vivente. Conosceva tutte le formazioni e i calciatori dagli anni ’80. Episodi, caratteristiche, azioni, schemi. E non se ne vantava mai. Saltava fuori la sua conoscenza durante una discussione, uno scambio casuale. Mai visto un tifoso così.

Era così Carlo. Di poche parole, ma mai buttate a caso.

In quelle interminabili domeniche in cui lo andavo a trovare se ne stava ogni tanto in silenzio a fissare la parete. Era stanco, ma ti sorrideva lo stesso. Pensava al dopo. Ormai era un prendersi in giro a vicenda. Io a nascondere a me stesso che la situazione fosse disperata, lui che aveva capito tutto ma che non si lamentava mai per non far soffrire nessuno. Tutto in tre mesi… giorno più giorno meno.

DSC_2972La telefonata di Francesca quella domenica sera fu una pugnalata. Perché già non doveva succedere, figurarsi così velocemente.

Non pensavo di andare a Lecce. Era stata una settimana difficile e faticosa.  La camera mortuaria, i funerali. A Milano tre giorni di fila. A Malpensa per prendere Vincenzo venuto su apposta da Catanzaro e poi in Centrale per Francesco arrivato da Roma. I pianti e le notti insonni con Valentina a tenermi la mano. Ne ero uscito stremato fisicamente e psicologicamente. Due notti consecutive in treno in quelle condizioni mi spaventavano. Temevo di crollare.

Prato-Catanzaro_15In fondo Carlo lo avevo già salutato. Con tanti amici in quella bella mattina di sole a Milano. Ma Roberto aveva ragione. Bisognava andare. Proprio noi, con cui aveva diviso migliaia di km di trasferte. Proprio noi, che eravamo diventati amici più di 12 anni fa grazie al Catanzaro.

Alla fine te lo scordi il motivo. Quando una persona diventa preziosa mica è importante ricordare quando e come ti sei conosciuto. Ma quella storia ci aveva sbattuto tremendamente in faccia la causa della nostra amicizia. Si… una partita di calcio a tinte giallorosse. Come 12 anni fa. In C2, tanto per cambiare.

Stelvio disse quasi subito di si. Offrendosi di andare la mattina a fare i biglietti in stazione. Emiliano e Aurelio, papà entrambi e con turni di lavoro nel w.e. si tirarono a malincuore fuori. Eugenio in quel periodo giocava a fare la guerra in Kosovo. 

E allora andiamo…” dissi.

Lo dissi sapendo di farmi ancora del male. In un momento in cui forse avrei voluto egoisticamente solo qualche giorno di calma. Ricordo il tono di quella frase che avrei voluto fosse magari più epico che rassegnato. Ma non era il momento per fare gli eroi quello. Era solo un tentativo, un ennesimo, per ricordare Carlo.

Il treno notturno fermo ai binari di Porta Nuova mi riportò indietro di colpo di 20 anni. Quegli scassoni di espressi, con i vagoni sporchi che prendevo regolarmente durante l’università. Senza cuccette da Torino per risparmiare, con la cuccetta da Catanzaro perché il biglietto lo andava a fare mio padre. 

Il nostro bagaglio era un drappo giallo. La bomboletta spray l’avrebbe portata Vincenzo da giù. Non ci serviva altro. Solo scrivere Carlo sul tessuto e attaccarlo alla balaustra. Il nostro umile e ultimo saluto.  

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Il treno arrivò puntuale alle 7 a Roma Ostiense. Giannantonio era in ritardo. Giannantonio è sempre in ritardo. Ma c’è sempre quando ne hai bisogno. Quante volte è venuto a prenderci la mattina presto in qualche stazione di Roma. Erano le trasferte di L’Aquila, Sora, Ascoli, Bari, Benevento. Erano gli anni di Corona e poi della funesta serie B. Erano anni in cui potevi decidere all’ultimo istante di andare allo stadio. Perché il botteghino del settore ospiti l’avresti trovato aperto anche il giorno della partita.

Altri tempi, altro calcio.

I km verso Lecce iniziarono tra poche parole e qualche colpo di sonno per stanchezza. Lo stato d’animo era diverso rispetto ad altre volte. Emozionati si, euforici no. Il cartello Benevento mi risvegliò dal torpore. In settimana tante tifoserie avevano ricordato Carlo con striscioni e comunicati.

Il suo esempio di attaccamento alla propria squadra era stato portato avanti in logiche ultras come un valore da rispettare e da ricordare. Pur non essendo Carlo un ultras mi era piaciuto vedere quelle scritte negli stadi d’Italia. Carlo riviveva in tante maniere diverse. Tutte spontanee e pacifiche. Mi emozionava l’idea che qualcuno al di fuori di Catanzaro si fosse fermato un attimo a pensare alla storia di Carlo e si fosse sentito in dovere di tributargli un ricordo.

benelaforzaGli “Stregoni“ fecero uno striscione semplice con su scritto “Onore a Carlo La Forza” e lo appesero fuori dal Vigorito. Dissi a Giannantonio di fare una deviazione. La pausa prevista l’avremmo fatta in un bar di Benevento. Il tempo di un caffè, con la speranza di incontrare qualcuno di loro. Entrammo in città in strade deserte. Era domenica mattina presto, normale.

Arrivammo davanti lo stadio. Lo striscione era ancora là. Dopo quasi una settimana. Ci apparve dopo una rotatoria. Vederlo ci inorgoglì. Ci sentimmo meno soli in quel frangente. Di beneventani neanche l’ombra. Passò un ragazzo che faceva jogging. Lo fermammo. Poche chiacchiere con lui  e vedemmo il suo viso sempre più sorpreso del perché fossimo lì. Davanti quello stadio. Una stretta di mano tra estranei suggellò un gemellaggio ipotetico mai nato e mai voluto. Una stretta di mano tra uomini che sanno riconoscere il dolore della morte.

Nulla più.

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L’arrivo a Lecce in una bella giornata di sole concluse questa nostra prima parte di viaggio. Vincenzo, Giangi e Salvatore arrivati da Catanzaro ci abbracciarono. Ma a Lecce quella domenica c’erano tutti. Gli amici di Carlo che non erano riusciti a venire ma anche chi non lo aveva mai conosciuto.

come una sorta di evento. Mi imbarazzava in parte tutto questo. Il nostro viaggio-ricordo voleva essere intimo, personale. Ma Carlo ormai non era del Gruppo Torino. Non era solo dei suoi amici. Carlo era diventato di tutti. Di tutti quelli che in tanti anni dietro un simbolo o dei colori hanno pianto o hanno riso di felicità. Di tutti quelli che hanno seguito una squadra che nella sua storia, pur non vincendo mai niente, ha rappresentato comunque sempre qualcosa. Una sorta di romanticismo quasi patriottico.

Carlo aveva smosso tanti cuori, ma era normale che fosse così. Un buono non può che essere circondato di affetto. Quasi scontato in una cerchia ristretta. Sorprendente quando l’affetto diventa generale.

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Al nostro arrivo fummo presi pacificamente d’assalto. Chi ci stringeva la mano, chi ci dava una pacca sulle spalle. Non ce lo aspettavamo. Non lo volevamo nemmeno. Ma inutile negarlo, ci faceva piacere.

Gli Ultras ci vennero incontro. Avevano deciso di non esporre striscioni in segno di lutto. Ci trovarono con il drappo giallo e la bomboletta nera in mano con cui stavamo armeggiando maldestramente. Uno di loro ci aiutò a distendere il panno e con mano ferma ed esperta scrisse CARLO. Semplice, essenziale, come Lui.

Quello sarebbe stato l’unico striscione esposto quella domenica.

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Il resto fu solo emozione. Potente. Il minuto di silenzio, il coro “Carlo Carlo“, il goal della vittoria di Fioretti. Le lacrime dei presenti e i pugni chiusi verso il cielo sulla balaustra al fischio finale.

Tutto come doveva essere e anche di più.

Uscii con un bottino di ricordi in mano. La pezza di Carlo, il pantaloncino di non so quale calciatore che un ultras con gli occhi lucidi mi diede con la promessa di darlo al piccolo Francesco, la fascia del lutto presa in campo a fine partita da Bruno il fotografo.

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Il rientro a Roma ci apparve meno lungo dell’andata.

Le chiamate mi scaricarono velocemente le batterie del telefonino. Tutti volevano sapere, avere un ricordo, un’emozione. Si piangeva al telefono. Ivan ci venne a salutare a Ostiense dopo non so quanti km di corsa in auto per arrivare in tempo. Aveva con sé un vassoio di polpette fatte dalla mamma e una bottiglia di vino. Genuinità e bontà, sia le polpette, così Ivan. Polpette che non presero mai quel treno. La tensione si era un po’ scaricata, Roberto stappò il vino su una panchina della stazione e riuscendo a strapparci un sorriso disse: ” Non avevo mai bevuto così poco in una trasferta”. 

lecce_cz_02Il resto del viaggio fu solo un tentativo disordinato di rimettere in piedi tutto il mosaico di emozioni della giornata. L’abbraccio tra di noi alle 7 del mattino a Porta Nuova fu molto forte. Eravamo contenti di ciò che avevamo fatto.

Una follia forse alla nostra età. Fra qualche ora, dopo una doccia, bisognava essere sul  posto di lavoro. Ma due cose importanti erano successe: non eravamo più soli con il nostro dolore e sentivamo Carlo ancora tra noi. 

Sul forum del Catanzaro il giorno dopo provai a raccontare queste emozioni. Ho riletto oggi quei momenti di un anno fa. Mi rivedo ancora in alcuni passaggi e rifaccio mio un pensiero che scrissi allora e che sento ancora forte. 

Mi sento fortunato. 

E questo pensare che c’è sempre un qualcosa di cui essere felici, o in questo caso meno infelici, me lo ha insegnato proprio Carlo…osservando la sua dignità, la sua forza e il suo carattere mentre affrontava la malattia che in soli tre mesi se lo è portato via. Osservandolo, pur consapevole della gravità di ciò che gli stava succedendo, nel cercare sempre un qualcosa su cui sorridere, in quella maniera spiazzante come sapeva fare solo lui. Che fosse per una giornata di sole a Milano, per i primi passi di sua figlia Martina o per una vittoria del Catanzaro in Coppa Italia. 

Da Carlo avrei sì voluto scoprire quanto la vita vada apprezzata ogni giorno ma insieme a lui….non senza. 

Qualcuno ha deciso che questa lezione dovesse proseguire senza l’insegnante, ma io ormai l’ho imparata“.

Grazie Carlo.

Alberto Capano

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