Oggi “Il Rompicalcio” tace. Si prende un giorno di ferie per lasciare spazio alle emozioni. Argomenti di cui discutere ce ne sarebbero tanti. La biglietteria dello stadio chiusa il giorno della partita e il sogno ancora irrealizzato delle prevendite in provincia. La “classica” conferenza stampa stereotipata al Comune e l’abbandono da parte di Aiello di ogni velleità di acquisizione della maggioranza azionaria. La “chiamata alle armi” della tifoseria e i soliti faraonici progetti di ristrutturazione dello stadio. Le boutade del Sindaco sul Catanzaro «biglietto da visita e patrimonio della città» e sul “Ceravolo” «gioiello del panorama sportivo meridionale». La terza prestazione positiva dei ragazzi di Auteri e la continua sensazione di precarietà della società, anche alla luce dell’ingombrante presenza intorno al Catanzaro di personaggi della vecchia proprietà. Per discutere di tutto questo ci sarà tempo nei prossimi giorni e nelle prossime settimane. Oggi “Il Rompicalcio” tace. E lascia spazio alle emozioni.
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Mi chiamo Giorgio Vignando
Mi chiamo Giorgio Vignando e di mestiere ho fatto il centrocampista. Di quelli tosti, molta corsa e pochi fronzoli. Questione di sostanza, la vita come il calcio, mi ripeteva mio padre mentre si ritornava dalla campagna verso casa.
Mi chiamo Giorgio Vignando e quando sono arrivato a Catanzaro mi aspettavo fatica, sacrifici e un po’ di soldi per la vecchiaia. Ho trovato una vita, un popolo che da dieci secoli cercava un motivo per essere orgoglioso, una terra che si rialzava sulle nostre spalle.
La domenica correvo, falciavo, lanciavo, sudavo, lottavo e gli altri giorni mi perdevo per le strade, mi infilavo nei bar e nelle parole di questa gente. Io emiliano e contadino riconoscevo le rughe, assaporavo il vino caldo e diventavo un tifoso. Ma lo sai, mi ripetevano tutti, lo sai che significa per noi vincere con l’Inter, con il Milan, con la Juve? Lo studente mi diceva Vignando, quel pallone che parte dai tuoi piedi è un portatore volante di felicità collettiva, il politico comunista mi prendeva in disparte e mi spiegava “voi non siete una squadra siete una speranza schierata su un prato verde”, il meccanico mi abbracciava e mi raccontava di suo fratello che lavorava a Mirafiori e ai cancelli agitava la sciarpa giallorossa e per dieci minuti non si sentiva né emigrato, né sfruttato, né incazzato, i vecchi mi svuotavano il bicchiere e controllavano la mia forma, mentre una città intera ripeteva: ne valeva la pena, aspettare tanto.
Cha Cha Cha, capoluogo e serie A, come un ritornello che scardina il futuro, lo sentivi l’orgoglio che arrivava a zaffate, ne avvertivi l’odore che riempiva le strade come quando mio padre mi raccontava quella volta che non avevano abbassato la testa davanti al padrone, quella volta che si erano ripresi la dignità e l’ignoranza. Siamo noi a far ricchi questa terra, siamo noi la loro abbondanza, me lo sussurravo nella pancia dello stadio quando già percepivo il fremito della curva, quando l’adrenalina mi schizzava fino alla testa mentre infilavo quella magliettina stretta stretta a righine giallo e rosse.
Non ho mai capito il loro dialetto ma ho riconosciuto nei loro occhi quelli di mio padre. Lo stesso modo di guardare un campo e di scrutare nell’erba il tempo che viene. Qui ho smesso di fare un mestiere e sono tornato ad essere un uomo. È vero, non vincevamo soltanto: li vendicavamo. Facevamo la rivoluzione in calzoncini rossi, con i parastinchi e con un numero sulle spalle, è vero ci divertivamo un sacco.
Il calcio non lo vedo più, mi fa tristezza, e in Calabria ci torno raramente, mi prende un’angoscia che non mi passa più. Non è per la sporcizia o per la povertà che resiste, non è per gli abusi edilizi o per i piccoli soprusi, non è nemmeno per la mafia, è che non vedo più negli occhi la dignità. Come se la gente si fosse abbandonata ad un destino di quarta serie.
Il mio nome è Giorgio Vignando, amo gli stopper rudi e i mediani di fatica, le squadre di provincia e i popoli oppressi, credo che le vittorie della mia squadra siano state impastate di umiltà, abnegazione e volontà, resisto sui gradini degli stadi di periferia e spero che questo presente prima o poi passerà. Nicola Effe