L’agonia dell’Effeccì continua a straziare i cuori dei tifosi che annegano nei ricordi l’impossibilità di avere un presente decoroso. Dopo le testimonianze di Bisantis, Provenzano e Rossi, UsCatanzaro.net pubblica oggi questo pezzo che ci ha voluto donare Antonio Barillà, vicecaporedattore del Corriere dello Sport e tifoso viscerale del Catanzaro. Lo pubblichiamo proprio nel giorno della morte di Giorgio Sereni che allenò, nella splendida stagione ’77-78, proprio alcuni dei campioni che Barillà cita come eroi dei suoi anni di quando «ci azzuffavamo attorno ai Supersantos o ai Supertele e i tackle erano quelli di Silipo, Sabadini o Ranieri». L’appello del giornalista alla città, alle istituzioni, ai dirigenti è anche il nostro appello.
Red
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Sulle maglie non c’erano nomi, i numeri andavano dall’uno all’undici, le formazioni erano cantilene e si giocava soltanto la domenica. Un altro mondo, il mondo di noi bambini, ragazzi, negli anni Settanta e Ottanta: noi che giocavamo per strada, perché non c’erano scuole calcio, e sognavamo di essere Palanca, di far gol da un’immaginaria lunetta d’angolo; noi che indossavamo magliette di fortuna – cos’era il merchandising? – e volavamo tra i pali, ch’erano pile di libri o cappotti, immedesimandoci in Pellizzaro e poi Zaninelli; noi che ci azzuffavamo attorno ai Supersantos o ai Supertele e i tackle erano quelli di Silipo, Sabadini o Ranieri; noi che se scartavamo tre ragazzi di III B ci sentivamo forti come Massimo Mauro; noi che ogni partita soffrivamo alla radio, perché la pay tv era un miraggio; noi che aspettavamo Novantesimo minuto e speravamo che l’unico secondo tempo trasmesso fosse “il nostro”; noi curiosi quando arrivò Nastase, ché non lo conoscevamo e wikipedia non esisteva; noi che entravamo nel negozietto e guardavamo la prima pagina del Corriere appesa dietro il bancone: “Catanzaro in A, viva la Calabria”; noi che una volta contedemmo all’Inter la finale di Coppa Italia; noi che urlammo “Serie B” al Milan; noi che vincemmo a Roma 3-1; noi che se i posti nelle Coppe fossero stati quelli di adesso, avremmo seguito il Catanzaro chissà quante volte anche in Europa, ricongiungendoci, come capitava al Nord, con tifosi d’accento diverso, ma con le nostre radici…
Nostalgia, non puoi farne a meno. Puoi solo evitare che diventi una prigione, una trappola. Perché vivere di ricordi è pericoloso, finisci per abbandonare la realtà, immalinconirti come quei vecchi nobili che non accettano il declino e si rinchiudono in case ormai cadenti, addosso vestiti eleganti ma lisi, con la memoria triste dei lussi perduti e l’incapacità di ribellarsi al destino. È importante, però, convivere con i ricordi: trasformarli in orgoglio, stimolo, sprone. Una scorciatoia per tornare grandi davvero, o almeno non rimpicciolirsi ancora, custodire pur minime ambizioni. Devono indicarla i dirigenti di oggi, o tracciarla i dirigenti che verranno: noi, bambini di ieri, ci incammineremo e porteremo con noi i bambini di oggi, quelli che possono confondere il Catanzaro in A con una fiaba. Non chiediamo molto, solo di custodire ricordi e sogni, e non ci impaurisce essere considerati zuccherosi, perché quel calcio, quel Catanzaro, erano romantici davvero.
Non è bello parlare di se stessi, ma a volte aiuta a spiegarsi meglio: non è più semplice trasmettere i sentimenti che nutri, se accetti eccezionalmente di sconfinare nel personale? Ebbene, seguo il calcio per lavoro. E se dopo aver visto mille partite, dopo aver attraversato i cieli sui charter della Nazionale, dopo aver raccontato una finale di Champions e la notte magica di Berlino, se dopo tutto questo riesci ancora a emozionarti avvicinandoti a uno stadio che ospita i play off, guardando una curva colorata di giallorosso, ascoltando canti immutati – almeno loro – nel tempo, significa che il Catanzaro è davvero parte di te. Parte di noi, non serve più il personale, perché eravamo tanti al Flaminio, fisicamente o col cuore, come eravamo tanti, secoli fa, all’Olimpico. Fate in modo, istituzioni e dirigenti, che l’entusiasmo non diventi più tristezza in un attimo, dateci un progetto serio, o garantiteci semplicemente di non procedere a tentoni. Eravamo tanti, al Flaminio, rapiti dal sogno della Prima Divisione, e il punto non è rinfacciare la sconfitta con l’Atletico aggrappandosi aridamente ai tempi in cui battevamo la Roma: no, il punto è costruire una squadra solida, vera, come è oggi l’Atletico da amare e difendere, per cercare di risalire tutti insieme. Fino a sfidare ancora la Roma che oggi è del “nostro” Ranieri. Leggo sempre le cronache giallorosse, quando appaiono sul computer in redazione – l’Inter e il Real, Valentino e Alonso, persino un fondo in prima pagina, possono aspettare – e mi ha ferito, nell’ultima domenica, leggere che c’erano solo duecento spettatori. Restituiteci i sogni: torneremo tutti.
Antonio Barillà*
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* Lametino di nascita, giornalista professionista. Attualmente è vice caporedattore del Corriere dello Sport, dopo aver lavorato per Tuttosport e La Stampa. Ha seguito come inviato i Mondiali di Giappone e Corea 2002 e Germania 2006, oltre agli Europei in Portogallo del 2004. Ha pubblicato nel 2008 il libro “Lucentissimo l’opposto cuoio delle scarpe e della testa”.