Quel pomeriggio…

Clemente Giglio ci racconta un sogno tutto giallorosso

 

Tre o quattro decimi di secondo.
Un tempo breve. Brevissimo. O forse un tempo interminabile, perché a volte il
tempo scherza con se stesso, si deforma, si dilata, si allunga come una lama
che può penetrarti nel sogno e fartelo sanguinare.

Tre o quattro decimi di secondo
ci sarebbero voluti quel pomeriggio al Luigi Ferraris, il vecchio “Marassi” di Genova.

Tre o quattro decimi di secondo
per capire chi sarebbe arrivato per primo su quel pallone restituito dal palo
alle lontane paure che avevamo cucite addosso.

Erano solo in due a
contenderselo: uno aveva la maglia rossoblu; l’altro una maglia gialla bordata
di rosso.

Era il 24 maggio del 2007 ed una
fresca domenica di sole quel giorno a Genova, quando Genoa e Catanzaro si
ritrovavano appaiate al quarto posto, con l’ultima occasione da spendere per
guadagnarsi il sogno.

Non ce ne sarebbero state più, si
giocava l’ultima di campionato.

Ventimila sugli spalti e venti in
campo erano diventati di pietra: non un solo gesto, non un grido, non un movimento.
In quei tre o quattro decimi di secondo. Tutto si sarebbe fermato, toccava a
due soltanto andare a raccogliersi il destino.

Due insensibili ricordi bussavano
alla mia memoria e rimandavano il rumore sordo dell’urto di un pallone contro un
palo. Uno era stato scagliato in un tempo supplementare da un giocatore che
aveva il nome di una promessa; l’altro in un momento senza tempo da un
giocatore che aveva il Nome.

Quei due legni me lo avevano
sbattuto in faccia, il sogno. Me lo avevano fatto sanguinare.

Quando il veloce giocatore in
maglia gialla lo aveva messo in area dal fondo del campo e l’aitante giocatore
in maglia gialla lo aveva sfiorato con la fronte, quel pallone sembrava aver
deciso di chiudere qualche ferita. Ma un altro palo, questa volta più discreto
e silenzioso, si era messo ancora una volta in mezzo.

Era rimasto il terzo giocatore in
maglia gialla, quello più esile di tutti, a sfidare un avversario e  qualcos’altro.

Ero arrivato a Marassi dieci
minuti prima dell’inizio e non avrei dovuto esserci. Poi, in tutta fretta,
avevo preso lo zaino e ci avevo infilato dentro il mio panino, la mia sciarpa e
le mie speranze.

Avevo trovato solo la Tribuna e
non vi avevo trovato dentro i miei colori. Com’era possibile non essere tra
loro, tra quelli con cui negli anni avevo condiviso tanti momenti? Eppure era
così, comunque fosse andata, quella inesauribile sorgente di passione l’avrei guardata
solo da lontano.

Avevo preso posto nella seconda
fila dell’anello superiore di quella fantastica arena, un catino rovente nel
quale i giocatori li sfioravi con la mano, li guardavi negli occhi. E ci
leggevi dentro il carattere.

Nel posto al mio fianco un
bambino fremeva accanto al suo papà e i suoi occhi furbi mi guardavano con
l’innocente dispetto di chi aveva scoperto il “nemico”.

Ottantasette minuti erano
trascorsi tra incitamenti e sospiri, urla lanciate nel vento e urla strozzate
in gola e ad essere svuotato di ogni energia non era solo quel pallone, ma
anche l’animo di chi si trovava lì, dentro e intorno a quel bagno totale di
emozioni.

In due si erano avventati su quel
pallone vuoto, mulinando velocemente le loro agili gambe ed aggrovigliandosi in
un takle irruente quanto confuso.

Non si riuscì a capire chi dei
due era stato a colpirlo o magari solo a sfiorarlo, ma non aveva importanza.
Quello che contava era solo che un pallone senza padrone era stato sospinto da
quel groviglio di muscoli fino ad adagiarsi lento e inesorabile in fondo alla
rete. Mi ero proteso in avanti appoggiando le mani sul ragazzo della prima fila,
allungandomi disperatamente per realizzare che avevo visto bene, che era andata
così. Me ne ero quasi convinto da solo quando un segnale mi venne in aiuto: un
fragore, un’esplosione di energia improvvisamente riaffiorata dentro quella grande
macchia colorata di giallo e di rosso, arroccata proprio lì su, sopra quella
porta finalmente violata.

Lo avevo immaginato tante volte,
il sogno. Me lo ero stupidamente preparato, costruito, modellato a mio
piacimento, senza rispetto per quella casualità che alla fine decide ogni cosa.

Avevo atteso che si avverasse dentro
la mia città, dentro il mio stadio, a casa mia, quando le bandiere avrebbero colorato
ogni finestra e i canti che annunciavano il trionfo sarebbero cominciati e
continuati secondo un disegno perfetto, dimenticato da ogni contrarietà. Io
naturalmente ne dovevo far parte, dovevo trovarmi nel cuore di quella
irrefrenabile ed esaltante festa.

Ma non era andata così e spesso avevo
ripensato a quei canti ingiustamente soffocati, a quelle bandiere ingiustamente
scolorite, a quella città ingiustamente tradita dal sogno.

Quei tre fischi consecutivi erano
tre colpi decisi su un tavolo e quella meravigliosa macchia umana era un’enorme
tequila bum bum, che quei colpi
avevano reso densa e schiumante di quattromila bollicine impazzite.

Ed io me ne ubriacavo.

Ero ancora lì, quasi un’ora dopo,
senza essermi accorto di essere rimasto solo, unico superstite di quella Tribuna
affranta da una cocente delusione, come tante, troppe volte era successo a me.

Prima di scolarmi il mio
godimento, avevo cercato quegli occhi furbi e loro si erano fatti trovare. A
quel bambino che imboccava l’uscita del suo sogno svanito avrei voluto dire
tante cose, ma lui era troppo sveglio per non capire, per non “perdonarmi” con
un solo sguardo.

Ero rimasto solo a gustarmi
quella sbornia, disteso non so come su uno scomodo seggiolino, rilassato e
felice, le mani dietro la nuca, la gigantesca tequila bum bum davanti a me, sempre più schiumante, sempre più
impazzita.

Per quanto diverso, il sogno si
rivelava infinitamente dolce e generoso e lasciava il mio sguardo libero di
riempirsi di quella arroventata Torcida
giallorossa e la mia immaginazione di tornare alle bandiere, alle sirene, al
fiume di felicità che questa volta era straripato davvero nella mia città e
niente avrebbe più potuto arginare.

Serie A. L’avevo, l’avevamo
aspettata tanto tempo. C’erano voluti degli anni, un tempo lungo, lunghissimo.
O forse un tempo breve.

C’erano voluti tre o quattro
decimi di secondo.

 

 

Il monco

Autore

Redazione

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