Otto ore al “Pronto” soccorso per una frattura al polso

La storia che mi accingo a raccontare in queste righe è una storia personale.

Allo stesso tempo però è una storia che interessa tutti, perchè riguarda il più importante servizio pubblico che l’epoca moderna abbia realizzato: la sanità.

Questa storia riguarda mia madre, una donna catanzarese di 76 anni con le paure, l’educazione e l’avversione alle ribellioni (anche quelle giuste e  giustificate) tipiche di una persona di quell’età.

Tre giorni fa mia madre cade atterrando rovinosamente sul polso. Capisce subito che ha bisogno di cure e chiede di essere accompagnata al Pronto Soccorso del Pugliese-Ciaccio. “Pronto soccorso”, col senno del poi, sembra quasi uno scherzo di cattivo gusto più che la definizione di un servizio ospedaliero. Già, perchè mia madre viene registrata in ingresso alle tre del pomeriggio ma dovrà attendere parecchie ore prima che le sue condizioni siano valutate. E quando lascia l’ospedale sono quasi le undici della sera.

Il Pronto soccorso dell’Ospedale Pugliese da almeno un anno si è trasferito al piano terra della struttura di Viale Pio X. Porte automatiche che si aprono all’arrivo delle ambulanze o delle auto private, sala d’attesa per parenti e pazienti, altoparlanti che se si impiegano più di due minuti ad accompagnare la persona da curare, lasciano partire una voce amplificata: “spostare la macchina, spostare la macchina”.  

C’è l’accoglienza dove ci si deve recare per comunicare il motivo della richiesta di assistenza. Ma anche qui siamo davanti a un gioco di parole perchè magari capita che l’addetto (richiesto per qualche altro motivo chissà dove) lasci il proprio posto deserto e ad “accogliere” ci sia soltanto una sedia vuota.

Sulle pareti tutto intorno, in compenso, non c’è uno spazio libero. C’è l’immancabile e ovvio “non fumare” e c’è la distinzione fra codici rossi, verdi e bianchi, con l’avvertenza speciale che quello “bianco” è sottoposto al pagamento del ticket. Manca solo un cartello, e vista l’esperienza vissuta potrebbe risultare decisivo: “Lasciate ogni speranza o voi che entrate”.

Mia madre prende posto su una sedia della sala d’attesa (qui non c’è alcuno scherzo perchè si attende eccome). E’ sofferente e mantiene stretto a sé il braccio sinistro. Sono le tre del pomeriggio di una domenica qualunque.

Chiunque con un minimo di esperienza di vita (e di infortuni), anche solo un passante, avrebbe potuto scommettere su quanto il medico di turno al Pronto soccorso avrebbe detto: “è necessaria una radiografia“. E difatti è proprio questo il responso del dottore, che arriva però ben cinque ore più tardi.

Sono le otto di sera quando mia madre viene visitata. Un intero pomeriggio trascorso da una donna di 76 anni a piangere per il dolore sopra una sedia. Tra persone in lacrime, codici rossi, scene da fare accapponare la pelle.  Ci sono infartuati, vittime di incidenti stradali, di incidenti domestici, altri codici bianchi. I codici rossi, per fortuna, entrano direttamente.

Una persona che arriva in ambulanza muore probabilmente per un attacco cardiaco, quando  i parenti raggiungono il pronto soccorso e chiedono dove si trovi il proprio congiunto è un operatore paramedico (che per caso sta nell’atrio) a rispondere. “Morìu”. E i parenti scoppiano a gridare e piangere.

Ma Catanzaro è la città delle “conoscenze” e chi ha “l’amico”, questa figura mitologica buona in tutte le occasioni, passa. E’ evidente. I fortunati ringraziano e benedicono quella “santa alleanza” col camice bianco:  “ringrazia ca sinnò si facìa menzannotta” dicono tra loro.

Dopo la visita mia madre raggiunge la stanza delle radiografie, attende anche qui, poi va dritta in ortopedia per la lettura delle lastre. Dovrebbero ricoverarla ma non c’è posto, la diagnosi è abbastanza seria: “Frattura scomposta pluriframmentaria epifisi distale radio  ulna sinistra”. Serve un’operazione, le dicono, sempre che si trovi un posto. Le fanno un’immobilizzazione e la rimandano al giorno successivo.

Alle 22.43 gli opereatori del Pronto Soccorso le consegnano i documenti con con la diagnosi. Totale ore in ospedale: quasi otto.

E’ normale? Queste righe verranno lette da personale medico, paramedico e cittadini comuni di molte città d’Europa e del mondo. E allora, chiedo anche a voi lettori, tutto ciò è nell’ordine naturale delle cose? Fa parte del vostro bagaglio di esperienze?

Poi c’è una domanda che è come un tarlo: chissà se un politico, un imprenditore, un qualsiasi esponente della nobile, aristocratica o semplicemente ricca “Catanzaro bene” avrebbe aspettato tanto, con lo stesso codice bianco.

Domenica sera mi sono chiesto se vivessi in una città moderna e civile o solo in una triste caricatura. Mi sono chiesto se fosse giusto caricare sulle spalle di medici e paramedici – alcuni dei quali estremamente cortesi, disponibili ed efficienti- le responsabilità di un sistema che dall’alto nessuno governa più.

Domenica sera ho capito che “malasanità” è una parola orribile. Un termine buono soltanto ad assuefarci ad un orrore quotidiano che quando raggiunge l’apice provoca morti incomprensibili, ma che normalmente si limita ad abbassare la qualità della vita di tutti noi, minando la nostra dignità nel momento più critico: quello del bisogno.

 

 

SF

Autore

Salvatore Ferragina

Scrivi un commento