Da Pagani alla partita di domenica, da Carlo Petrini a Ezequiel Bugatti, emozioni contrastanti si affastellano in questa serata piovosa e fredda di metà Aprile. Mi sono chiuso in ufficio, voglio restare solo, ho una sensazione di malinconia profonda che va al di là di un calcio di rigore. Gli alberi piegati dal vento ondeggiano sotto i colpi dell’acqua che cade giù a secchiate, un po’ come uno spirito romantico, degradato a pugile suonato, che deve fare i conti con l’amara realtà. Chi mi conosce sa bene come vivo il calcio. El fútbol a sol y sombra. Già il sole e l’ombra.
Mi piace pensare che le cose non avvengano mai per caso. La pantomima sulla morte di un povero ragazzo che nella vita tira calci a un pallone per riscattare un’esistenza maledetta, l’addio sofferente di Carlo Petrini capace di assumere tutto il peso delle sue scelte, la partita sciagurata di Pagani, la rete di Bugatti; tra il sacro e il profano, lo sguardo si volge al senso profondo che questo gioco, metafora estrema della vita, assume.
Non so bene, perché stia scrivendo, Puntonet come una pagina di diario, lo specchio di emozioni contrastanti da registrare sulla carta prima che volino via, al ritmo frenetico di una vita che ci porta spesso a non riflettere. O forse che ci permette di eludere la riflessione, una riflessione dura ma necessaria. Ha senso arrabbiarsi per una decisione arbitrale di fronte alle parole di Carlo Petrini? Ha senso macinare migliaia di chilometri, quando poi magari, gli attori in campo, sono solo figuranti in cerca d’autore? Certo i dubbi ti assalgono quando tanti eventi si incatenano veloci come in questi giorni.
Ma allora mi chiedo, cosa ci spinge a continuare a seguire questo sport? Cosa ci porta a Gavorrano, a Fondi, o a Pagani? Credo che la risposta risieda ancora una volta nella necessità di attribuire a quella dannatissima palla un significato metaforico e ‘sacrale’. Quella dannatissima partita, o quel maledettissimo campionato sono come la vita. Magari arriva qualcuno che vanifica con un’ingiustizia tutti i tuoi sforzi, oppure provi a semplificarti le cose con comportamenti poco regolari, oppure, oppure perdi qualcosa all’improvviso, così senza una ragione, senza avere la forza di chiederti perché. Ma poi ci sono quegli altri momenti, quei rapidi e fugaci istanti di gioia. Undici attori protagonisti con una maglia giallorossa. Undici eroi più forti delle piccole ingiustizie sportive, undici eroi più forti delle parole al vetriolo di giornalai e dirigenti di scarso livello, undici eroi trasfigurati dalla loro natura umana, che per novanta minuti sono più forti di tutto, sì anche della morte e della malinconia che in una serata come questa ti attanaglia. Undici attori che a prescindere dal risultato finale, qualunque esso sia, lottano e sgomitano dall’inizio alla fine. E allora quella piccola gioia, quell’esultanza quando il giocatore più umile della squadra entra e segna, allora forse, quella piccola gioia è quello che ci tiene ancorati a questo sport. Uno sport malato e trafficato da brutti personaggi, ma uno sport che tra le sue luci e ombre ci obbliga ancora una volta a sperare, sì a sperare, che almeno per novanta minuti saremo più forti del destino beffardo.
E allora come diceva Camus: “Non ci sono sforzi inutili. Sisifo si faceva i muscoli”. Domenica voglio vedere la trasfigurazione di migliaia di cuori in undici eroi, anche se quella magia può durare solo novanta minuti. Già, novanta minuti, qualunque sia il risultato.
Emanuele Ferragina