Dal profondo del tempo
Come un rimpianto
Ora rinasci tu
Se ci fosse attenzione per il campione
Se ci fosse più amore per il campione
Questo mondo coglione piange il campione
quando non serve più
Ricordati di me, mio capitano
Cancella la pistola dalla mano
Tradimento e perdono
Fanno nascere un uomo
Ora rinasci tu
A raccontare certe storie si corrono rischi incalcolabili. E la storia di Agostino Di Bartolomei, centrocampista della Roma degli anni ’80, è inevitabilmente una di quelle. Quasi viene voglia di mettere da parte penna e taccuino, bloccare la tastiera del portatile e affidarsi a una tavoletta di legno in coppia con un piccolo coltello da intaglio. Così, perché ogni parola sia incisa a fatica, e perciò spesa soltanto se davvero necessaria.
Per una sintesi tanto umana quanto crudele, la vita di ognuno di noi è spesso segnata da un gesto soltanto. Un unico atto che per tutti gli altri è sufficiente a definirci e raccontarci. Agostino Di Bartolomei è stato campione d’Italia nella grande Roma di Dino Viola, centrocampista della nazionale, finalista di Coppa, allievo prediletto di Nils Liedholm, marito, padre, uomo. E oggi è addirittura il nome di una strada dentro un parco della Capitale.
Ma per tutti, prima di ogni altra cosa, Di Bartolomei è un suicida. Lo è diventato in pochi istanti sul balcone della sua villa, sparandosi un colpo al cuore il 30 maggio del ’94, alle 8.50 del mattino. Di suicidio nel nostro quotidiano si parla poco. Forse per pudore o per un qualche istinto di conservazione, magari solo per paura. Le storie dei sucidi sono raccontate ogni volta con la stessa retorica nelle pagine di qualche giornale locale. Nella nostra città, il ponte del record per la sua grande arcata unica, se ne sta immobile a ricordarci questa terribile alternativa all’esistenza, e quanti fino ad oggi l’abbiano percorsa.
Ma cosa porta un uomo a darsi la morte? Nessuno può mai saperlo con certezza, e per questa ragione spesso si cercano testimonianze, tracce di disperazione, brandelli di sofferenza. Di Bartolomei si uccise lasciando un biglietto, “mi sento chiuso in un buco”, scrisse. Non gli fu concessa la carriera dirigenziale che quel simbolo romano e romanista avrebbe meritato, dissero alcuni. Per molti altri, fu semplicemente dimenticato, abbandonato al secondo tempo della sua vita, quello senza goal e cori continui, ma con sconfitte che non è possibile dimenticare la domenica successiva. Per ragioni anagrafiche, non ho visto Di Bartolomei sopra un campo da calcio. Le immagini delle sue azioni e dei suoi successi, le foto di quello sguardo incastrato dentro un corpo di calciatore, mi pare restituiscano innanzitutto un uomo, e la sua esistenza dal terribile epilogo.
Ogni storia è diversa dalle altre, figurarsi quelle dei suicidi: Di Bartolomei, Pantani, Tenco, l’impiegato volato giù dal ponte in un giorno piovoso di novembre, il figlio della professoressa di storia della mia adolescenza. Nessuno dei protagonisti di queste esistenze ha mai desiderato che quell’ultima scelta insegnasse qualcosa. Eppure qualcosa resta: il senso di inadeguatezza che porta un uomo ad eliminarsi con tanta risolutezza, si trasferisce a chi rimane, portando con sè una responsabilità con la quale fare i conti ogni giorno. Il calcio, lo sport in genere, qualsiasi tipo di professione, il semplice quotidiano è fatto di uomini. Ognuno con le proprie difficoltà, le proprie bugie, gli insormontabili ostacoli da affrontare. Fermarsi senza chiedere nulla in cambio, ascoltare e domandare, perdonare e sorridere: ecco cosa può fare la differenza lontano da un campo da calcio. Ecco la lezione da imparare quando con il pallone non è più tempo di giocare.
Fabrizio Scarfone