L’OCCHIO SULLA CITTA’ – Se il ghetto non è Harlem ma la città è Catanzaro

Come in tutti i ghetti, anche in questo ci si entra e basta. Chi è solo di passaggio, sulla via che porta al mare, può addirittura ignorarne l’esistenza.
È viale Isonzo, dentro il quartiere “Pistoia” di Catanzaro e già la toponomastica lascia intendere una prima verità: c’è la città e c’è un’altra cosa che la città vuol mantenere lontana da sé.
Il ghetto di Catanzaro ha le bizzarrie raccontate da Abraham Cahan nel suo “Perduti in America”; ha casermoni alti, grigi e di altri colori che finiscono per diventare grigio anch’essi. Sono quanto di peggio l’edilizia popolare potesse offrire poco più di quindici anni fa.

All’assenza di genio architettonico – e da queste parti non è una novità – ha fatto il paio quella di genio amministrativo e così, dopo le prime assegnazioni regolari “graduatoria in mano”, gli appartamenti sono diventati proprietà di chiunque fosse stato in grado di occuparli.
Un po’ per scelta e un po’ per forza, è qui che ha avuto luogo il primo tentativo d’integrazione tra Rom e “Civili” (in questo modo,gli stessi rom definiscono l’altra parte del mondo).
Ho appuntamento- perché anche qui non si entra se non si conosce nessuno- con il mio amico Antonio che a Viale Isonzo, per diritto, abita da almeno dieci anni.
Pur essendo ospitale e generoso, confermando il primo dei luoghi comuni sui calabresi, è la prima volta che Antonio mi invita in casa sua; mi ha confidato di vergognarsi del posto in cui vive e che solo la nostra lunga amicizia ha scalfito quel pudore.

È ingegnere civile, il mio amico. Laureato con il massimo dei voti all’Università della Calabria, ha trent’anni e lavora da quattro da precario in uno studio tecnico cittadino. Guadagna settecento euro al mese che, con qualche lavoretto da professionista indipendente, diventano faticosamente novecento, talvolta mille: gli va di lusso, in fondo. È la classe del proletariato evoluto, quella a cui appartiene: mani pulite,delicate e giacca e cravatta come tuta da lavoro.
È sabato pomeriggio, in una di quelle giornate in cui non si fatica a credere che il vento gelido possa portare via con sé un bel pezzo d’orecchio.
Mentre scendo dall’autobus e attraverso la strada in direzione del quartiere, vedo il cielo sopra i palazzi volgere al buio e, in lontananza, le larghe pale bianche dell’impianto eolico continuare a girare senza farci caso.
Qualche metro verso l’interno c’è un edificio costruito da poco: doveva essere la sede di una forza pubblica, una qualsiasi, tanto per affermare che questa porzione di città non è abbandonata a se stessa.
È invece una costruzione vuota, chiusa, sbarrata, con una gelida luce bianca a illuminare le stanze sgombre.
Tutti i comandanti, gli operatori, i rappresentanti sindacali, hanno declinato l’invito, opposto resistenza. Troppo pericolo, le forze dell’ordine amano stare in centro, a Catanzaro.

Poco più giù c’è uno spiazzo occupato per metà da un Tir con rimorchio: ci stanno caricando sopra due macchine e non posso pensare che stia accadendo qualcosa d’illegale, la strada principale è solo a una decina di metri.
Tiro dritto fino a scorgere la Chiesa Cattolica Romana, onore a quella: mi viene da pensare che l’unica istituzione presente nel giro di centinaia di metri abbia sede in uno stato estero.
Qui, il dibattito sulla doverosa laicità dello Stato perde il suo senso e la Chiesa, più che istituzione millenaria è, come nelle guerre, edificio con un interno più sicuro degli altri.
La salita attraverso la quale si arriva nel mezzo del quartiere è significativa come l’erbaccia, i barattoli ammaccati, i pezzi di pane ammuffito, i giocattoli rotti e i colli di bottiglia che trovo per strada.
Perfino lo scheletro di un alto edificio mai terminato, pare voglia significare qualcosa che non è.
C’è un secondo palazzo, finito e abitato, proprio accanto allo scheletro. È singolare, i primi due piani sono uno sotto e l’altro appena sopra il livello della strada.
Cammino sul marciapiede per concludere la mia salita e basta voltare lo sguardo verso le finestre a un palmo dal marciapiede, per avere la netta impressione di camminare tra le cucine, i salotti, le camere da letto di quella gente.
In breve sarò al centro di questo posto.

Una macchina sfreccia con grande rumore nella mia stessa direzione e disegna una scia di fumo nero il cui puzzo si mischia a decine di altri odori che adesso tutti insieme sembrano far capolino nel mio naso. Cipolla, birra, gas di scarico, sudore, ruggine, muffa.
Accelero il passo e mi ritrovo nel punto da cui posso vedere tutto il quartiere.
Conto tre, quattro, cinque, sei portoni. Anche i palazzi normalmente abitati hanno almeno uno o due appartamenti devastati. Sono quelli usati per i pezzi di ricambio.
Fa freddo, eppure la strada è piena di gente. Un gruppetto di adulti armeggia intorno a qualcosa che non riesco a vedere, un bambino cerca di far partire la sua moto in miniatura spronato dai compagni, tre vecchie donne dalla faccia scura e dai seni enormi mi guardano affacciate dal balcone, poggiate sulla ringhiera coperta da un tappeto. È il luogo dei luoghi, questo, e pare non ci sia spazio per volti da “acqua e sapone”.
Non posso negarlo: in qualche modo sono affascinato.

Seguo le istruzioni di Antonio, passo accanto a un cubo prefabbricato adattato a bar e continuo dritto. C’è gente che parla da distanze straordinarie urlandosi contro, c’è una donna in pigiama e pantofole in mezzo alla strada: in una mano ha le chiavi di casa, nell’altra un piatto fumante.
Per ogni piano di un palazzo c’è sempre qualcuno alla finestra, proprio come nel cinema di una grande città, c’è sempre almeno uno spettatore a guardare lo spettacolo.
Adesso che è buio dovunque, il quartiere pare ancora più grande e le luci arancio quasi lo rendono elegante.
Vorrei fermarmi per strada e guardare, scrutare, comprendere e sentire profondamente giusto l’insegnamento di Spinoza, per il quale le azioni umane non vanno derise, compiante o detestate, ma capite.
Se fossi in una banlieue Parigina acquisterei una birra in quel bar di lamiera appena passato e starei qui per ore. Ma non sono a Parigi, non ho la giustificazione d’essere straniero nel fare cose stupide e c’è il mio amico che m’aspetta.
L’edificio di Antonio lo riconosco subito.

Proprio come mi aveva raccontato, c’è la piccola statua di un Cristo davanti al portone. Passo al vaglio severo di un paio di inquilini affacciati e di un tizio che aspetta qualcuno o qualcosa in una macchina col motore acceso. Due gradini soltanto, poi il citofono e sono arrivato.
La casa di Antonio è al penultimo piano e questo mi piace, non oso pensare a cosa si possa vedere dall’alto. Non c’è ascensore, solo la tromba, e le mattonelle del portone sembrano quelle usate per l’interno di una stanza da bagno. Ogni centesimo risparmiato sui materiali è un centesimo guadagnato dal costruttore, mi è stato spiegato; l’edilizia popolare a volte è un ’affare in cui il popolo ci rimette.
L’appartamento è accogliente, caldo. Arriva il cioccolato della signora Giovanna che intanto si mette a parlare del posto in cui vive. Non è per niente contenta e dopo pochi istanti soltanto, mi rendo conto che per chi non cerca l’ispirazione per i suoi scritti, la vita qui dentro non deve essere semplice.
”Ho conosciuto persone che prima di iniziare questa convivenza con i vari delinquenti del quartiere avevano un po’ di civiltà, ora sono perfettamente integrati, meravigliosamente mimetizzati con l’ambiente degradato in cui vivono. La cosa peggiore è che questa storia non avrà mai fine perchè i ragazzini di oggi, e futuri delinquenti di domani, non avranno mai la possibilità di riscattarsi. Come fargli capire che esiste un mondo diverso là fuori , se le giornate sono scandite sempre dal solito, inesorabile nulla? “

Giovanna non riesce a tenere ferme le mani e la vena sul collo si fa gonfia ad ogni parola.
“Niente scuola, solo vita di strada per i ragazzini di Pistoia. Sono tutti in giro a infastidire la gente, a pronunciare le parole più scurrili, a imparare a guidare senza patente, a rubare, a portare pacchetti di droga da un portone all’altro. È da loro che si dovrebbe partire per cambiare almeno il futuro. Il presente ormai è andato Perchè non si fa nulla affinché almeno frequentino le scuole dell’obbligo?”
Antonio mi racconta del tizio all’ultimo piano, spaccia eroina alla città intera per conto delle cosche di Isola Capo Rizzuto, in provincia di Crotone e che spesso i tossici, cercando lo spacciatore, gli bussano in casa. Una sera d’estate, suo padre ha trovato sulle scale una donna con una siringa infilata nel seno scoperto; quella ha chiesto anche scusa, pare non fosse riuscita a rinviare di qualche minuto lo sballo.

C’è Amalia, la vicina con turbe mentali. È stata venduta dai genitori a un tunisino che proprio oggi l’ha riportata indietro, non la vuole più.
Poi m’invita a seguirlo verso la finestra, mi indica appartamenti e mi racconta storie.
Ogni storia è una smorfia che si aggiunge al suo volto, capisco che sta raccontandomi in pochi minuti ciò che non ha volto dirmi per anni. Mi parla dei bambini con la barba, della compravendita dei figli, di donne mai uscite dal quartiere e che oltre al solito ristorante delle cerimonie non vedranno altro, di mamme quattordicenni, di ladri, mignotte e alcolisti.
Mi porta ad un’altra finestra, quella di camera sua, dà su un campo buio,pieno d’immondizia, di auto e moto rubate.
Due uomini sotto una luce rossa stanno tagliando qualcosa: è rame, il nuovo business. Molti muoiono folgorati per rubare il rame alle ferrovie e se riescono a scamparla si tranciano le dita tentando di tagliarlo con seghe e coltelli.
Antonio mi parla ancora del suo senso di vergogna.

Prima doveva vergognarsi della casa nella quale abitava: una sola stanza che faceva da salotto, sala da pranzo e camera da letto.
Ora deve vergognarsi del quartiere in cui vive, come a dire che pare non sia cambiato nulla e anzi che la vergogna si sia “espansa”.
Quando lascia lo studio tecnico in cui lavora, tornando a casa, in auto, controlla bene che nessun collega gli stia dietro e possa riconoscerlo.
Antonio è il classico laureato “ad alto potenziale” con decine di borse di studio alle spalle, è la persona più capace e intelligente che conosca eppure avverte tutta la sensazione di “superiorità” anche solo espressa nello sguardo del tecnico che bussa alla sua porta per la lettura del gas.
Tutti pensano che qui ci siano solo gli altri, quelli che si vedono per strada,nessuno crede che qui possa vivere un ingegnere.

Mi spiega che sta provando a risparmiare l’ottanta percento delle sue entrate e che tra un anno o due spera di avere un contratto che possa permettergli di accendere un mutuo.
Provo a raccontargli che tanti uomini di successo hanno vissuto in quartieri degradati, difficili, e che proprio quell’esperienza ha offerto loro la rabbia necessaria ad andare oltre tutti gli altri… snocciolo esempi, ricordo nomi…ma Antonio mi risponde che questo è un quartiere travestito, male, da ghetto e come ogni travestimento mal riuscito appare volgare e superfluo agli occhi di chiunque, anche ai suoi.
I COME FROM HARLEM! IO VENGO DA VIALE ISONZO!
No, effettivamente non ha nulla di epico. E non rende più forti.

da ILTEMPO.IT

Fabrizio Scarfone

Autore

Redazione

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