Crotone sogna la serie A. La squadra della città calabrese sembra non avere rivali, anche il Cagliari, con cui si contende il primato nel campionato di Serie B, ha pagato dazio nel piccolo stadio della città di Pitagora. Ma la partita più importante si giocherà tra qualche settimane in un’aula della Corte d’Appello di Catanzaro. Sul Football club Crotone pende una richiesta di sequestro avanzata dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. La società, infatti, rientra nel lungo elenco di beni, per un valore totale di circa 800 milioni di euro, su cui l’antimafia calabrese vorrebbe apporre i sigilli.
Per il procuratore Giovanni Bombardieri e il sostituto Domenico Guarascio il patron del Crotone Raffaele Vrenna e il fratello Giovanni sono socialmente pericolosi tanto da richiedere nei loro confronti la misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel Comune di residenza per 5 anni. Ex vicepresidente regionale di Confindustria, il 57enne Raffaele Vrenna dagli anni Novanta in poi ha costruito un vero e proprio impero con la spazzatura.
Da anni gli inquirenti hanno acceso i riflettori sulle attività dei fratelli Vrenna e così dopo aver raccolto migliaia di pagine di informative del Gico, dichiarazioni di collaboratori di giustizia, ricostruito gli assetti societari e i legami “scomodi” di parentela, dalla Procura è partita una richiesta di sequestro. Per restare in gergo calcistico, la gara di andata se l’è aggiudicata il gruppo Vrenna. Lo scorso 16 gennaio il Tribunale di Crotone, sezione misure di prevenzione, ha rigettato la richiesta della Dda, per i giudici i fratelli Vrenna sono vittime dei clan.
Da Catanzaro però la Procura insiste: «Sono imprenditori attigui al fenomeno mafioso per essersi sin dalla genesi della loro attività accordati con le consorterie criminali e segnatamente con quella denominata Vrenna-Corigliano-Bonaventura». A sostegno della loro tesi i magistrati della Dda riportano, nel loro appello, le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia per spiegare «come il Vrenna, appoggiato dalla cosca sia stato capace di sbaragliare la concorrenza e godere di protezione nei confronti delle altre ‘ndrine».
A garantire la “sicurezza” dell’azienda ci avrebbe pensato Luigi Bonaventura nipote del boss Pino Vrenna e ora collaboratore di giustizia. È lui stesso a raccontare di essere stato assunto nel maggio 1990 dal «cugino» Raffaele Vrenna e di aver poi percepito «uno stipendio a parte però fuori busta, diciamo un mezzo pizzo se così possiamo definirlo». Una “mutual corroboration” la chiamano i magistrati della Dda: da una parte gli imprenditori concedono denaro e assunzioni, dall’altro la cosca garantisce protezione e «l’espansione degli affari commerciali». E, infatti, quando un’impresa di Raffaele Vrenna prese un appalto nel Cosentino il boss Pino Vrenna inviò un suo emissario a «trattare con i clan di quella zona».
Il rapporto stretto con il capobastone troverebbe conferma anche nelle dichiarazioni del pentito Domenico Bumbaca secondo cui «i fratelli Vrenna hanno sostenuto le spese legali di Pino Vrenna pagando gli onorari degli avvocati». Ma è addirittura il leader del Locale di Cutro Nicolino Grande Aracri a definire Raffaele Vrenna «un grande compagno nostro». Nel 2006 l’imprenditore venne accusato di concorso esterno. Condannato in primo grado venne poi assolto. Proprio questa sentenza viene richiamata dai giudici di Crotone per sostenere l’assoluta estraneità di Vrenna alle dinamiche criminali.
Al contrario i magistrati della Dda sostengono che proprio in quella assoluzione c’è la prova della pericolosità sociale del patron del Crotone. Nella sentenza Raffaele Vrenna viene infatti descritto come «disposto a tutto, a commettere falsi e abusi e anche fare affari con persone che sa o intuisce essere losche (rectius ‘ndranghetisti) ma tutto ciò, nei suoi piani, è di importanza secondaria».