Tremila chilometri valgono un gesto. Aspettare la fine delle ostilità e il deflusso di un carnevale giallorosso fuori stagione. Una città strombazza lì fuori, almeno per qualche ora dimentica delle sue miserie, e tu Cristo e Cesare sei padrone esclusivo di quello spazio, uno spazio che ha il sapore dei ricordi d’infanzia.
“Bianchi, Destro, Cascione, Sassarini, Imborgia, Pedrazzini…”, era il 1985 e avevo poco più di due anni, tra le braccia di mio padre recitavo a memoria quella formazione che ci portava fuori dall’onta della serie C, nella quale eravamo piombati dopo i fasti della serie A. Perso nei miei pensieri, sento una voce richiamare la mia attenzione. “Certo tu avevi un anno, ma io ero ben saldo in questa curva, e me lo ricordo quel campionato. Ce la giocammo con Messina e Palermo. Erano altri tempi, caro mio, ‘il professore’ Franco Scoglio mica Eziolino Capuano”.
Mi volto, non vedo nulla. La voce riprende, “non puoi vedermi, ormai sono solo un fantasma, qualche attento burocrate si era reso conto che la mia presenza in curva era ingombrante. Ma sai che ti dico, meglio cosi, avevo già deciso di lasciarmi andare, ne avevo viste troppe. Molti si saranno dimenticati di me, ma sono sicuro che quelli che amavano stare sotto la mia ombra mi porteranno con loro per sempre. Quante ne ho dovute sopportare. Annate incolori, battuti da Castrovillari, Tricase, Vigor Lamezia, da Barrucci a Bugiardini, da Spelta a Morgia, da De Carolis a Delle Donne. Che penitenza ragazzo mio”.
Cavolo me li ricordo tutti quei campionati. Squadre intere cambiate a Gennaio, e poi sempre lo stesso esito, arrivederci alla prossima stagione nell’ultima serie professionistica. Sì ma peggio della lenta agonia degli anni ’90 ci furono quelle partite spareggio terrificanti. Benevento, Sora, Acireale, Roma. “Cavolo, meno male che almeno quella del Flaminio me la sono risparmiata”, esclamò la voce, “non so davvero se c’è l’avrei fatta”. E qualche ricordo bello però lo abbiamo avuto dai. Quella cavalcata in C1, con Giorgio Corona e Pierino la peste. “Ti prego non me ne parlare, la serie B, la peggiore umiliazione”. “Presi a fucilate da tutti. Una volta i tifosi avversari arrivavano qui al Ceravolo e mi guardavano con rispetto, lì erano solo risate, penso proprio che quei due campionati mi hanno ucciso”. “Ma piuttosto dimmi che ci fai qui dentro mentre tutti là fuori festeggiano?”.
Pensavo. Pensavo a quando ero bambino e il calcio non era una cosa seria. Non capivo molto di tattiche, ma immaginavo storie bellissime. Potevamo giocare con l’Akragas e per me era meglio della serie A. Pensavo sai, a quel tempo non avevo bisogno di accettare compromessi. Tutto era uno splendido gioco e il Ceravolo vuoto il mio Luna Park. Oggi è tutto diverso. Sono cresciuto. Ogni giorno sono posto di fronte al compromesso. Lo faccio per guadagnare il denaro che mi serve, per raggiungere un obiettivo a lungo inseguito o semplicemente per non restare solo, come oggi. Ho sempre sostenuto che il calcio fosse una splendida metafora della vita, una fedele riproduzione in scala dei patimenti, delle gioie e delle angosce del nostro quotidiano. Guardati intorno, guarda i distinti con un progetto che cambia ogni tre giorni, guarda quei campetti intorno allo stadio in stato d’abbandono, guarda quelle facce appese sui muri da votare ancora. Oggi tutti gioiscono, giustamente per una promozione che aspettavamo da tanto tempo. Ma è proprio mentre tutti si esaltano, che a me piace tenere i piedi ben saldi per terra, perché la notte e il buio arrivano più rapidi delle vittorie.
“Non ti crucciare, il calcio, cosi come la vita, è decisione rapida; all’improvviso un gesto maldestro sembra irreparabile, ma la palla va e viene nel bene e nel male. Restare sognatori in un mondo fatto di cinismo è forse il miglior antidoto contro l’infermità mentale. Al di là dei compromessi che la vita ti propone”. “Si vede che sei un romantico tu, aspettare che il Ceravolo si svuoti piano piano, per immaginare partite delle quali hai solo sentito parlare e delle quali non resta ormai neanche la memoria. Partite in bianco e nero, quando il Catanzaro era un’idea più che una squadra di calcio. Come quando c’erano gli spartani. Te li ricordi? E’ passato solo un anno”. “Sai ti guardavo oggi durante la partita. Nessun coro, qualche imprecazione certo, ma lo sguardo fisso su quel prato verde, proprio come quando eri bambino, e per te, l’Akragas era come la Juventus. Ti piace misurare la gioia e il dolore per costruirci sopra le tue storie, gli attori non contano per te, in fondo sono solo figuranti messi insieme dal destino per rendere credibile un racconto al limite del possibile. E’ per gente come te che un pino si ritrovava in mezzo ad una curva”.
“Ti voglio regalare una storia prima di unirci al carnevale, me l’ha raccontata un pirata che è passato di qua tanto tempo fa. E’ la storia di una squadra umile, convinta e mai arrendevole. Una squadra con un bomber che non faceva infatuare, perché non aveva una lunga chioma e perché non calciava al volo tiri impossibili, ma che segnava a ripetizione come solo i grandi sanno fare. E poi un difensore centrale di stampo calabro, faticatore e mai plateale; un figliol prodigo, che all’esilio dorato preferì l’odore acre della sua terra, il suo ritorno un bagno di stimoli che sapeva di ricostruzione; e poi uno spaesato attaccante argentino duro come la roccia, sempre pronto a sacrificarsi per la causa. Beh quegli uomini umili, in quella terra lontana raccontata dal pirata, rappresentavano la rivincita di un popolo, e in un certo senso quella di tutti noi. Quel popolo e quegli uomini erano considerati ‘ultimi’ da chi credeva di poter disporre di vite, anime e illusioni. ‘Quegli ultimi’ erano, nella loro condizione di debolezza, capaci di gesti meschini e assenza di qualunque coscienza civica, ma ‘quegli ultimi’ in certi momenti capivano che c’era bisogno ancora di loro per fare la storia. E allora, si rimboccavano le maniche per non far mancare il loro sostegno. Senza enfasi. ‘Quegli ultimi’, in grado di rimettere in comunicazione gente sparpagliata per i continenti, ‘quegli ultimi’ che ci hanno fatto incontrare oggi, che ci hanno fatto riconoscere una volta ancora figli di una stessa comunità, ed in fondo sono quelli che, anche se per poche ore, ci hanno spinto a volerci tutti bene”.“E’ per ‘quegli ultimi’, che a volte ho accettato compromessi che tu ritieni infanganti, è per ‘quegli ultimi’ che ancora una volta oggi pomeriggio mi sono emozionato. Perché in fondo al cuore so che nonostante tutto, ‘quegli ultimi’, non si sono mai veramente arresi ad un destino di quarta serie”.
Emanuele Ferragina