Il calcio è in fuorigioco, scrive il quotidiano economico Italia Oggi sulla prima pagina del lunedì. Il titolo nasce inevitabilmente dalla lettura degli ultimi dati economici riguardanti il mondo del pallone che, nel 2010-2011, ha prodotto ricchezza per un valore complessivo di 2,5 miliardi di euro ma ha dovuto sostenere costi per 3 miliardi. In pratica il “comparto calcio” perde mezzo miliardo di euro l’anno, e le società di serie A sono complessivamente indebitate per 12,6 miliardi di euro. Un’enormità, peraltro con ricavi in calo del 10% ed un futuro che sembra ancora più nero.
Ma a cosa sono dovuti questi numeri così negativi? Certo, il calo degli spettatori ha inciso, raggiungendo quest’anno il 4,4% eppure da solo non basta a spiegare la crisi (i ricavi dai botteghini valgono infatti direttamente il 10% dei ricavi totali di una società di calcio).
Sul banco degli imputati c’è innanzitutto una politica degli ingaggi non più sostenibile. Un esempio? Oggi un calciatore di 19 anni, al suo primo anno di serie A, può percepire anche 500mila euro lordi (ecco la busta paga di un novellino).
Così finiscono per non bastare più neanche i diritti televisivi, prima voce nei ricavi di una società di A e di B. In più, nei prossimi anni, a seguito del calo degli abbonati delle piattaforme satellitari, le offerte per i diritti delle trasmissioni delle partite potrebbero essere riviste al ribasso. Un ribasso che dovrebbe oscillare tra il 30 ed il 50%.
In questa situazione di burrasca, solo sei club su venti di serie A presentano dati positivi in termini di bilancio (Napoli, Lazio, Udinese, Palermo, Parma e Catania dati stagione 2010/11), ma a incidere su questi risultati è innanzitutto la voce «plusvalenze».
Non considerando, infatti, questa forma di ricavo – che correttamente l’Udinese inserisce nel proprio bilancio come «provento straordinario», mentre il resto del plotone la include nel valore della produzione – nessun club della serie A, ad eccezione del Napoli, sarebbe in utile (+2,9 milioni). Un dato che fa riflettere sullo stato di salute reale del nostro calcio.
L’Udinese dunque, come caso esemplare nel mondo del pallone. Conti a posto certo, ma non solo. La squadra friulana è al vertice ormai da 15 anni ed ha raggiunto per il secondo anno consecutivo la Champion’s League. Una squadra di provincia ammirata per la sua capacità di crescere talenti e rivenderli a cifre astronomiche alle più blasonate società d’Europa. Un esempio su tutti? Alexis Sanchez, venduto la scorsa estate al Barcellona per 37,5 milioni di euro.
Giampaolo Pozzo, attuale proprietario, oltre che della squadra allenata da Guidolin, anche della spagnola Granada e, da pochissimo, della squadra inglese del Watford, è stato intervistato da Gabriele Ventura proprio per Italia Oggi.
Presidente Pozzo, come funziona il modello Udinese dal punto di vista imprenditoriale?
Una società di calcio funziona come una normale azienda. Bisogna semplicemente dare sempre uno sguardo al conto economico, che deve essere perfettamente bilanciato e in attivo. È necessario quindi avere delle regole precise sul tetto degli ingaggi, facendo in modo che le entrate siano sempre più alte, anche lievemente, delle uscite. D’altra parte, negli anni, all’interno del sistema calcio c’è stata una evoluzione dei controlli. Anche l’Uefa, con il fair play finanziario, impone determinate norme che permettono oggi al sistema di andare avanti. Noi, gioco forza, abbiamo dovuto applicare questi principi con largo anticipo, dato che disponiamo delle risorse di una società piccola che, se vuole andare avanti, deve guardare i conti. Poi, come tutte le aziende, bisogna sviluppare il prodotto: quindi cercare di avere buoni giocatori e vincere le partire.
Guardando appunto al prodotto, come si costruisce una squadra di vertice vendendo campioni e non comprandone?
Abbiamo altre esigenze rispetto alle grandi squadre, perché siamo legati a un tipo di mercato povero e non possiamo permetterci di fare grandi operazioni. Abbiamo ricavi per 40 milioni, non per 200. Altri possono prendere giocatori già formati e affermati, mentre noi siamo costretti a cercare calciatori alle prime armi, investire laddove pensiamo che abbiano un futur,e formarli all’interno. Nessuna squadra, infatti, ti addestra un giocatore per poi riconsegnartelo campione. Anche per questo,abbiamo altre società satellite che fanno questo tipo di lavoro, dove possiamo mandare i giocatori a maturare per poi costruire squadre competitive, restare in serie A e disporre anche di quelle risorse minime per poter fare del buon calcio. Se non fai così,in Italia e anche nel resto del mondo, scompari. Basti ricordare le tante società gloriose di un tempo che erano in serie A e vincevano e oggi non si sa neanche più se esistono.
E il presidente-imprenditore come deve investire e come costruisce il gruppo di lavoro?
Bisogna fare quello chesi fa in tuttele attività commerciali, cambia solo il soggetto, che è il giocatore, legato a un’infinità di variabili.Dal punto di vista imprenditoriale, infatti, se produco oggetti meccanici so che basta scegliere una buona macchina per fare un buon investimento. Per un calciatore non è così. Posso anche scegliere un buon giocatore ma poi sul suo rendimento influiscono mille variabili, dall’ambiente, alla salute e via dicendo. Perciò, come in ogni gruppo di lavoro, è necessario che ci siano dei bravi dirigenti, e noi si può dire che li abbiamo. Anche perché personalmente non mi dedico direttamente al calcio, quindi sono proprio i dirigenti a svolgere questo tipo di attività quotidiana e ad aver sviluppato questo modello.
Come giudica il sistema calcio inItalia? È un’impresa dove conviene ancora investire?
In Italia il sistema calcio è un’impresa che tira ancora rispetto ad altre attività. All’interno del settore sport è la prima disciplina, e ci sono anche le risorse economiche sufficientiper poter fare del buon calcio .I presidenti delle società , invece, devono migliorarsi. Ma anche da questo punto di vista, a livello internazionale, ci sono realtà peggiori.
A proposito, qual è la sua esperienza sul calcio spagnolo, che rappresenta il non plus ultra in questo momento?
In Spagna mancano le regole e non cisono controlli. Molte società falliscono e nonostante questo continuano a giocare. In Italia ora ci sono regole rigorose, le società che non le rispettano vengono penalizzate in classifica. In Spagna, nel settore calcio, tra un imprenditore serio e uno che non guarda i numeri è quello serio a non andare lontano. Ma poi, a un certo punto, è logico che il sistema morirà da sé. In apparenza la Spagna è il paese calcio per eccellenza, campione del mondo e d’Europa, ma a ben vedere ci sono due o tre società san ee il resto è un disastro.
Quindi è meglio l’Italia?
In Italia siamo molto più avanti ma comunque non basta. Va bene il doping finanziario, ma sarà necessario più equilibrio, meno disuguaglianza nei ricavi tra grandi e piccole squadre. Così, si rende anche il calcio più bello. Se infatti facessimo come in Spagna, dove ci sono due squadre sopra tutte e le altre giocano un altro campionato a 30 punti di distacco, che divertimento ci sarebbe? In Italia il calcio ha un grande futuro perché ci sonole risorse. Bisogna solo migliorare sul piano della gestione collettiva
E l’Inghilterra, invece, dove ha appena comprato il Watford? Cosa pensa del oro sistema calcio e quali gli obiettivi del suo inve-stimento?
In Inghilterra so chegli incassi sono molto maggiori. Ora è ancorapresto per dare valutazioni, certe cose bisogna viverle in prima persona.Quello che mi risulta è che il calci oè molto più organizzato sul piano del marketing e questo aiuta molto. Si parte insomma da buone basi,poi dipenderà dalla nostra capacità di sviluppare una buona gestione. L’obiettivo è andare in Premier il primapossibile.
Più in generale,qual è la strategia imprenditoriale alla base del possedere più squadre in paesi diversi? Quali i vantaggi?
In Inghilterra abbiamo trovato una società storica in difficoltà dove a mio parere si può fare del buon calcio. Questo investimento è comunque legato allo sviluppo di strategie sinergiche, che rientra nella nostra politica di competitività. Per mantenere e sviluppare la competitività di un piccolo gruppo di squadre la chiaveinfatti è il sostegno reciproco. Molto semplicemente, l’unione fa la forza.
FabScar