Pippo
Russo è già stato molte cose. Giornalista sportivo del quotidiano
Il Manifesto poi trasmigrato verso altri e più diffusi giornali,
ospite televisivo, docente universitario, autore di libri di genere
diverso, ha mantenuto però costante nel tempo la sua indomita avversione
per Arrigo Sacchi e Silvio Berlusconi, rei di aver profondamente trasformato
il calcio e l’Italia in cui era cresciuto e in cui – lui come tanti
– avrebbe voluto continuare a vivere.
Il
suo libro più noto (Il mio nome è Nedo Ludi, Baldini
e Castoldi, Milano, 2006) è uno straordinario e accorato inno alla
resistenza dei perdenti, un imperdibile viaggio nei processi di trasformazione
che si sono realizzati all’inizio degli anni ’90 in questo Paese
ma anche un soffice sguardo al calcio che non c’è più.
Nedo
Ludi si affaccia agli anni ’90 con la sua fascia di capitano dell’Empoli
e il suo numero cinque stampato sulla maglietta. Di professione fa lo
stopper e la sua vita scorre intorno a poche ma salde certezze: non
oltrepassare la linea di centrocampo, impedire al centravanti di segnare,
spazzare via la palla che cade nell’area di rigore, votare comunista
come gli ha insegnato il padre. Il suo mondo caldo e accogliente, racchiuso
tra Montelupo Fiorentino ed Empoli, tra gli amici d’infanzia e i successi
calcistici, tra l’affetto della famiglia e quello dei tifosi, viene
improvvisamente spazzato via dal ciclone del nuovismo (craxiano, prima,
e berlusconiano/sacchiano, dopo) e dell’ansia collettiva di pseudo-innovazione
che travolge l’Italia.
Nedo
Ludi, così, si trova alle prese con un allenatore cresciuto alla scuola
di Sacchi che lo frastorna con parole incomprensibili e lo costringe
a giocare con entrambi i piedi, ad essere intenso, a stare in linea,
a fare possesso palla anche in prossimità della porta, proprio mentre
il mondo esterno deve fare i conti con lo scioglimento traumatico del
Pci e con il crollo degli equilibri politici che avevano governato la
Repubblica italiana fino a quel punto. Come sempre, c’è chi si riconverte,
chi corre in soccorso del vincitore, chi diventa il principale sostenitore
del nuovo senza nemmeno sbarazzarsi dell’abito vecchio, e c’è chi
resta fedele – per pigrizia, per incapacità o per onestà – alle
proprie idee e alle proprie abitudini, venendo così travolto dal crollo
del proprio mondo.
Nedo
Ludi finisce presto in panchina a guardare un calcio che non gli piace
più, così come il padre si rintana in casa e diviene un semplice spettatore
di una involuzione inarrestabile. Certo, la storia di Nedo Ludi
riserva ai lettori ancora qualche piccola sorpresa, e la fine sarà
preceduta da una tenace e divertente opera di resistenza che getta nuova
luce sul mondo misterioso degli stopper di un tempo. Groppi, Burnich,
Galdiolo, Bet, Della Martira, Chinellato, Spinosi, Bachlechner, nomi
arcigni che evocano difesa ad oltranza, gioco duro, resistenza agli
attacchi, spirito di sacrificio ed un calcio dimenticato troppo in fretta,
sacrificato brutalmente sull’altare della modernizzazione.
In
quel calcio, in cui contavano ancora la passione, il coraggio e l’umiltà,
il Catanzaro era protagonista, perché i piccoli potevano battere i
grandi e perché c’era ancora spazio per l’esperienza, la fantasia,
la speranza, le favole a lieto fine. Oggi che i difensori centrali si
assomigliano tutti un po’, alti, magri, eleganti e incapaci di marcare
l’uomo (vedi Criscito e Bocchetti nelle partite olimpiche), sappiamo
bene che il nuovo che avanzava era un grande bluff, un operazione di
marketing talmente spregiudicata da risultare vincente. Nedo Ludi non
c’è più, ha appeso triste le scarpe al chiodo ma il calcio voluto
dai grandi modernizzatori (Sacchi e Berlusconi su tutti) è molto peggio
di quello di ieri. Stadi semivuoti, club ricchi sempre più ricchi e
club poveri che stentano a sopravvivere, partite noiose, falli tattici,
erba sintetica e sette giorni di moviole urlate da giornalisti prezzolati.
Per
fortuna qualcosa è cambiato negli ultimi anni, la bolla del sacchismo
si è un po’ sgonfiata, qualche grande vecchio è stato allontanato
e si ricomincia a parlare di equa distribuzione dei diritti televisivi.
Ma nei quindici anni di trionfo del calcio intenso e bugiardo, il Catanzaro
è sparito dalla ribalta nazionale ed è rimasto confinato ai margini
del grande palcoscenico, pagando a caro prezzo la tentazione di essere
come gli altri, di cedere alla presunzione, all’immagine, alla retorica,
alla grandeur.
Il
mio nome è Giorgio Vignando, amo gli stopper rudi e i mediani di fatica,
le squadre di provincia e i popoli oppressi, credo che le vittorie della
mia squadra siano state impastate di umiltà, abnegazione e volontà,
resisto sui gradini degli stadi di periferia e spero che questo presente
prima o poi passerà.
Nicola Effe