Titolo: Il mio anno preferito
Autore: Nick Hornby (a cura di)
Casa ed.: Guanda
Anno: 2006
Prezzo: € 8,50
E’ ufficiale: Nick Hornby è meglio del Prozac. Alzi la mano chi conosce una medicina migliore di una sua pagina per superare la depressione da calcio. Forse perché il ragazzo se ne intende. Forse perché prima di Wenger, Fabregas e l’Emirates ha vissuto il mediocre Arsenal del ’75, le leggendarie tribune di legno di Highbury, le ripetute finali di Coppa perse a Wembley. Il suo best-seller, Fever Pitch (Febbre a 90°), rivelò il suo straordinario talento e la sua passione per l’Arsenal. Qui raccoglie, invece, una serie di scritti sul calcio di altri autori, che narrano una stagione particolare della loro vita da tifosi. Hornby racconta “l’anno preferito” da studente a Cambridge, in cui seguì le incredibili sorti del Cambridge United, incapace di vincere per 31 partite prima di battere e negare la promozione al Newcastle United. Hornby lamenta spesso di non aver potuto vivere appieno il Double (Premier e FA Cup) dell’Arsenal nel 1971. Allo stesso modo, troppo giovane, Fabrizio Scarfone non ha ricordi vividi di stagioni gloriose del Catanzaro. E allora sceglie uno spazio anziché un tempo. Il settore “Distinti” dello stadio di Catanzaro, una lingua di cemento schiacciata tra la tribuna stampa e le panchine. Un monumento della città, un crogiolo di strati sociali, passioni e umanità. Ne viene fuori uno straordinario pezzo che deborda dalla recensione letteraria e si trasforma in un saggio di costume. E chissà che un giorno, lette queste righe, non troveremo Hornby ai “Distinti”, seduto a jestimare accanto a Mandarino. (IP)
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Lo scrivo subito: il consiglio letterario di questa settimana è perfetto per il “dopo Barletta”. Intendiamoci, il libro curato da Nick Hornby è divertente, vero, a tratti piacevolmente colto; insomma, una lettura da iniziare in qualsiasi momento, consapevoli di essere alle prese con il meglio in circolazione. Ma le storie di calcio e passione raccontate in quelle pagine sembrano scritte soprattutto per gestire una delusione calcistica da “post qualcosa”. Tra un racconto e l’altro infatti, tra una pessima annata del Watford e un’avventura strappalacrime dell’Irlanda di Roy Keane, emerge la consolatoria convinzione che il calcio sia sofferenza, anche (e forse particolarmente) negli anni preferiti.
Di pagina in pagina, lo confesso, anch’io ho pensato a quali fossero i miei anni preferiti. Ma da buon tifoso del Catanzaro nato negli anni ’80, ho presto realizzato di non possederne neanche uno. Perfino la stagione chiusa al primo posto in C1, riletta con l’ausilio del tempo, sembra più una cavalcata leggiadra verso un burrone profondissimo, che una corsa gloriosa verso la promozione attesa per oltre un decennio.
Dedicando comunque più attenzione alla questione, ho capito che il meglio (e il peggio) delle mie esperienze di calcio, non è legato a un tempo, ma ad un luogo: precisamente al settore Distinti del “Nicola Ceravolo”. Qui si garantisce molto più di un anno preferito.
C’è qualcosa di più autenticamente catanzarese dei Distinti?
Esiste uno spazio in cui i tratti caratteristici dei nostri concittadini, nel bene e nel male, siano meglio rappresentati? Evidentemente no.
Neanche dentro gli storici quartieri della Vallotta o della Grecìa, tra i vicoli centenari e il profumo del tempo andato, si arriva a tanto. È di sicuro sopra quei gradoni grigi – soltanto recentemente colorati dalla plastica gialla e rossa dei sediolini – che il catanzarese trova ancora oggi la sua riserva prediletta. Non pensino di storcere il naso, i cultori dell’imborghesimento universale: nei Distinti vive il popolo. E il popolo sputa, urla, sgomita, bestemmia, rivendica diritti arrampicandosi con tutte le forze sopra una barriera di plexiglas. A volte appare barbaro, violento, rozzo e irrazionale come la folla del Manzoni. Altre limpido e giusto come una promessa di rivoluzione.
Dai Distinti sono passate molte generazioni di uomini e donne: non tutti santi, non tutti demoni. Sono cresciuti i figli, invecchiati i padri; le circostanze e il tempo hanno prodotto separazioni dolorose, ferite spesso insanabili. Eppure lo spirito intimo di questo luogo – che si adora o si odia irrimediabilmente – non sembra essere mutato. Varcato l’ingresso, appena l’erba del Ceravolo è a vista, tutto ciò che nel quotidiano sembra proteggerci, gratificarci e quasi definirci, svanisce. Allora non conta quanto denaro tu abbia accumulato, né quali meriti la società ti riconosca. Non conta la discendenza, e neanche il titolo di studio. Ai Distinti se non conosci il calcio, se non sai “leggere una partita” e non sei disposto a sacrificare le corde vocali per la tua squadra, non sei nessuno.
E forse è proprio per questo che in tanti preferiscono le tribune o la curva: in quei settori, in qualche modo l’ordine sociale resiste (in tribuna), o magari è reinventato (in curva). Provate a infilare in uno spazio tra le panchine e la stampa il catanzarese spavaldo, lo sportivo, il mentecatto, il pavido, l’istruito, l’ignorante, il meschino, il generoso, il millantatore, il violento e il timido. Conferite a ognuno uguale diritto di cittadinanza, poi lasciate che il gioco abbia inizio. Capirete la filosofia dei distinti in pochi istanti, è qualcosa di molto simile al melting pot.
La battuta sagace, gli improperi, l’analisi tecnica: tutto è utile e ben accetto, purché sia efficace. Ma efficace in funzione di cosa? Della vittoria di una partita, il più delle volte. Della sopravvivenza, quasi sempre.
Già, perché in una società di consumatori/spettatori, il popolo dei Distinti è costantemente minacciato, e le individualità che lo compongono sono spesso invise alle maggioranze paganti.
Così la decisione di qualche tempo fa – determinata da “imprescindibili ragioni di sicurezza” e “delicatissime esigenze televisive” – di chiudere i Distinti lasciandoli deserti, è sembrata assurda e logica insieme.
Il tifoso dei Distinti non è malleabile, difficile strumentalizzarlo: non si compra per nulla al mondo che non sia una vittoria, fosse anche contro l’ultima nella classifica di un pessimo campionato. “Se esistesse un movimento di resistenza al calcio moderno, avrebbe la propria base ai Distinti” ha scritto un saggio catanzarese: verità assoluta. Non si tratta del settore di uno stadio, ma di un monumento al “catanzarese ignoto”; un patrimonio da salvaguardare, a metà strada tra il Morzeddhu e le opere del maestro Rotundo (‘u ciaciu).
C’è una persona, avrà più o meno 40 anni e allo stadio non manca una partita dai tempi della serie A. Vive il Catanzaro dalla curva, ha scelto quel settore quando era giovane, con il solo obiettivo di cantare a squarciagola. Qualunque fosse stato l’avversario in campo, per un attimo distoglieva lo sguardo dai calciatori e cercava suo padre: lo trovava sempre. Se ne stava al solito posto, appena un gradone sotto la tribuna stampa, con il suo cappotto grigio da impiegato e il completo scuro indossato qualche ora prima per la messa. Suo padre oggi non c’è più. Ma di tanto in tanto, tra un gol e l’altro, tra un anno e l’altro, tra un fallimento e l’altro,
sposta lo sguardo dal campo e lo rivolge laggiù in fondo, verso i Distinti, sotto la tribuna stampa. Non ci crederete mai:
a volte lo vede ancora.
Fabrizio Scarfone