GIUSTIZIA – Testimone contro boss, gli negano la scorta

Due volontari lo accompagneranno in tribunale a Catanzaro
TORINO – Ci sono due ragazzi che, ieri, hanno corso in autostrada per mille e 200 chilometri. Hanno viaggiato senza quasi mai fermarsi, guardando con sospetto le auto che gli stavano troppo vicine, osservando fors’anche con il cuore in gola tutto il mondo che si muoveva attorno a loro. Ragazzi normali, non body-guard esperti di protezione, che però hanno fatto da scorta a un uomo che, domani, dovrà salire sul banco dei testimoni al tribunale di Catanzaro. E punterà il dito contro gente che lui aveva fatto arrestare. Un testimone in un processo di ‘ndrangheta. Uno senza macchie nel suo passato, e che, da undici anni, vive in località segreta a mille e 200 chilometri da casa.

Il nome di quest’uomo protetto a mani nude, e con corpi che non indossano giubbotti antiproiettile, é Giuseppe Masciari: un ex imprenditore edile di Serra San Bruno, paese nel cuore della provincia di Vibo. Un tipo forte, determinato che non si spaventa facilmente. Undici anni fa, dopo aver subito estorsioni, minacce, essersi visto distruggere parte dell’azienda costruita dal padre ed ereditata da poco, aver subito danni per decine e decine di milioni, era andato a raccontare un infinito calvario di vessazioni alla magistratura. «Ne ho portati dentro 41 la prima volta e altri con testimonianze successive» racconta. Quarantuno arresti, una montagna di pagine di verbali che hanno avuto come risultato quello di far saltare un «sistema» di Vibo. Un clan che non aveva esitato a sparare anche al fratello di Pino Masciari.

Da quel giorno l’ex imprenditore edile è un «testimone di giustizia». Vive al Nord in una località individuata come «la più sicura», con la moglie i due figli. Lo Stato gli passa mille 700 euro al mese. Ma, da quando – nel 2005 – il programma di protezione è finito se deve andare a testimoniare – come spesso capita quando il tribunale di Catanzaro e quello di Vibo lo convocano – lui deve chiedere scorte, protezioni e quant’altro. «Mi hanno detto di non lasciare il Nord, di non scendere in Calabria. Ma il tribunale mi intima di presentarmi e io devo partecipare» racconta Masciari al telefono, mentre l’auto corre verso il Sud. E così è accaduto anche adesso. Il tribunale gli ha fatto sapere che, se non si presentava, lo avrebbero portato giù con il sistema di accompagnamento utilizzato per i pentiti. Cioè furgone blindato, ceppi ai polsi e quant’altro. E ancora una volta lui si è ribellato alle regole. «Io non sono un pentito» tuona al cellulare. «Io sono un testimone. Una vittima che ha avuto il coraggio di denunciare, e non possono trattarmi come un delinquente».

Con a fianco don Luigi Ciotti si è lanciato in una provocazione tanto rischiosa quanto clamorosa. Tornare a Vibo senza scorte, se non quella di due ragazzi di «Libera» l’associazione nata proprio grazie a don Ciotti, e che da sempre lotta contro ingiustizie e mafie. Ne hanno parlato lungo a Torino di questa scelta di «scortare» Masciari al Sud. E alla fine sono partiti. Al volante un ragazzo di 28 anni; seduto accanto a lui un altro di 35. Uno, Davide, è presidente piemontese di di Libera; l’altro, Enzo, è uno studente universitario di giurisprudenza. Fanno tutto questo a loro rischio e pericolo. E per un’idea: «Un testimone nei processi di mafia è una persona che merita il massimo del rispetto. Che va protetto ed assistito. Ma che che va anche trattato con dignità». E loro contestano quella mancanza di dignità riservata al loro compagno di viaggio. «Lo hanno scaricato due anni fa dopo avere usato le prime testimonianze. E questo è profondamente sbagliato da parte di uno Stato. La legalità passa anche attraverso la riconoscenza» dicono a Libera.

E intanto Pino Masciari, e la sua fragilissima scorta, continua la sua corsa in auto verso Vibo Valentia. Chilometri su chilometri. «A distanza di undici anni rifarei la stessa cosa che ho fatto allora, perché io voglio andare in giro a testa alta». E poi aggiunge: «Io vorrei che le istituzioni fossero più vicine ai tanti Masciari che ci sono in Italia. A quelli come me che hanno scelto di mettere a repentaglio al loro vita per la giustizia» E ricorda che un mese fa, quando venne convocato per un altro processo, proprio mentre percorreva la A3 venne informato che l’albergo dove avrebbe dovuto essere ospitato era sull’isola di Capo Rizzuto a poche centinaia di metri, in linea d’aria, dalle case delle persone che lui aveva fatto finire dietro le sbarre. Un assurdo burocratico. Una follia che rischiava di mettere a repentaglio la sua vita. «Ho fatto girare l’auto e sono tornato immediatamente a casa» racconta il testimone. Alle 23 sono tutti in una camera di albergo. Masciari non nasconde la paura: «Mi accompagna ogni giorno da anni ed anni. Ma non è questo che mi fermerà». Aggiunge: «Avrei preferito due poliziotti armati e un’auto blindata. Ma sapesse quante volte ho viaggiato in condizioni di pericolo».

LODOVICO POLETTO
(http://www.lastampa.it)

Autore

Tony Marchese

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