Certo, si parla di calcio, ma non è mai soltanto un pallone
Ci sono immagini che ciclicamente si presentano ai miei occhi. Accade senza preavviso, il più delle volte. O nei momenti di “riserva”, quando sono sul punto di cedere alla rassegnazione dopo anni vissuti da indignato (e disilluso) con la sciarpetta giallorossa al collo. Come in un racconto di Dickens, queste immagini si concedono con un preciso intento: mostrarmi ciò che perderei se smettessi di credere alla possibilità di un futuro migliore; ciò in cui non potrei più credere se semplicemente spegnessi il computer e chiedessi ai miei amici ancora a Catanzaro di parlarmi d’altro, dimenticando la squadra della città in cui sono nato e cresciuto.
Eccole lì, quelle immagini, tutte in fila: c’è il profilo austero di Giorgio Tallarico mentre “le canta” a Massimo Poggi e Claudio Parente, l’orgoglio di Nando con le sue bandiere mosse dal vento nei giorni più tristi della vita di un uomo, i cappotti lisi e profumati di naftalina dei vecchi tifosi con la radiolina sintonizzata sulle frequenze di “Tutto il calcio…”, come se la serie A fosse ancora roba loro. La strana, adorabile “L” dei giallorossi di Pianopoli, Sambiase, Nicastro. I ritorni di Massimo Palanca e la domanda della massaia con i cartoni della frutta sotto le braccia: “Scusate, voi siete Palanca? Non siete cambiato per niente”. La maglia di Mirko sotto la casacca di Giorgio Corona, lo stendardo “Simu Assai” e tutto l’amore e la tristezza che si porta appresso per ciò che racconta. Le bestemmie pronunciate dai devoti dei Distinti, già scontate nella messa di qualche ora prima. Un vecchio (e vero) ultras, Maurizio, che invade il campo in una finale playoff ormai andata a male per sfogare la sua rabbia, e finisce invece per piangere sulla spalla consolatrice di un maresciallo dei Carabinieri che quasi si commuove. La recente provocazione piena di speranza visionaria di un altro tifoso, Giuseppe, sugli spalti con un sacchetto per la spesa marcato Sidis issato come stendardo. Il tifoso di Torino che porta al “Delle Alpi” il cappello del suo vecchio padre perduto per sempre, tanto perché al ritorno del Catanzaro nel calcio vero possa assistere anche lui. La conta collettiva degli autobus ad Ascoli – ottooo, noveee, dieciii… – mentre lo stadio è già strapieno di catanzaresi. L’attacco di un pezzo del Corriere dello Sport in quello stesso giorno: “Oggi, una città della Calabria, Catanzaro, è in viaggio…”, le macchine con due sciarpe giallorosse che spuntano dai finestrini come ali.
No, non posso smettere di credere che, taccuino in mano, un giorno il nuovo Giorgio Tallarico spunterà dal nulla, che altri pullman giallorossi viaggeranno sulle strade d’Italia, che le auto rimetteranno le ali e Massimo Palanca tornerà in città. Sarebbe come portare i propri sogni ad un Compro Oro, ottenendo in cambio il contante sufficiente per il pasto quotidiano. No. Piuttosto prendo a cercare nuove immagini nel buio di questo FC, dove ogni mossa è studiata e meditata a lungo con l’intento di assopire le coscienze ed estinguere la passione. Dove come in un libro di Orwell, le parole dal significato più netto si confondono, venendo irrimediabilmente stravolte dentro comunicati torbidi, freddi, praticamente morti. Eppure, in questo buco nero finanziario, civile e morale, qualcosa resiste ancora, ostinatamente. Irragionevole come solo la passione pura può essere.
Voglio raccontarvi di Luca Feroleto, ragazzo di neanche trent’anni che se avesse un cavallo potreste scambiarlo per Don Chisciotte. Luca combatte la sua giusta battaglia coltivando la memoria sottoforma di maglie da gioco. Maglie giallorosse, con i vecchi sponsor e i grandi numeri sulle spalle. A Luca sembrava assurdo che il Catanzaro non avesse un museo delle maglie ed è per questo motivo che ha cominciato con la sua collezione. Luca compra, non vende; se proprio non può farne a meno, scambia. A ripagarlo è lo sguardo di qualche vecchia gloria come Enrico Nicolini – ipnotizzato davanti alla sua maglia giallorossa del campionato ‘79/’80 – o magari le parole di un padre che mani in tasca racconta senza risparmio al figlio le stagioni in cui quelle maglie furono indossate sul campo… e gli scappa un sorriso compiaciuto in mezzo a tante parole. Ha cominciato con una maglia soltanto, il nostro Luca, ed ora ha un piccolo museo custodito faticosamente dentro casa (online qui) e che, quando glielo permettono, è felice di condividere con tutti i tifosi del vero Catanzaro.
La retorica di “regime”, impregnata di un’ipocrita voglia di austerity, dopo l’accumulo ingiustificabile di milioni di debiti vorrebbe che ci abbandonassimo a campionati “dignitosi” – senza ovviamente specificare cosa s’intenda per “dignità” – da ultimi in classifica in quarta serie. E perciò rifugge la memoria, accusando chi la coltiva di vivere nel passato. Ma la memoria ci dà la misura esatta di quanto misero sia il nostro presente. Continua ad accumulare le tue maglie, caro Luca. In attesa di tempi migliori proteggi i nostri ricordi, prima che a qualcuno magari venga in mente d’impegnarli…
Fabrizio Scarfone