LA curva in Italia è da sempre “territorio ultrà “. Da quando, all’incirca intorno al 1970, decine di tifoserie iniziarono a coagularsi attorno ai cosiddetti gruppi organizzati. Per capirci meglio quelli che allo stadio cantano e saltano, quelli che fanno striscioni e coreografie anche giorno e notte se necessario, quelli pronti a manifestare per chiedere il corpo di un amico scomparso in un campeggio costruito sul letto di una fiumara e mai ritrovato, quelli dai tanti sacrifici strettamente personali, quelli che seguono le Aquile ovunque e comunque, nella cattiva e nella buona sorte, a Marsala come a Como, quelli che tengono solo alla maglia, che ormai hanno ben chiaro che “questo calcio fa schifo”, che non hanno bandiere se non quelle costantemente sventolate per dare colore e passione. Quelli che ridono e piangono, poco importa se di gioia o amarezza, basta esserci e tenere duro, mai mollare ma lottare. Per un ideale, per mille ideali, discutibili quanto volete ma pur sempre meritevoli di rispetto.
A Catanzaro la curva è degli Ultras. Dedicata a uno di loro, a chi ne ha tracciato la strada, al mite e sorridente “Mazi” che passava le sue giornate a parlare con piccoli e grandi, che riuscì a riunire tutti i belligeranti quartieri catanzaresi dietro il mitico striscione Uc, che dispensava pillole di saggezza curvaiola ma non solo, che ripeteva spesso «gli Ultras sono il bene più prezioso di questa città … » in un posto dove ti viene voglia di scappare appena maggiorenne. Si potrà discutere sui modi, sulla presunta arroganza che spinge un ultrà a difendere le sue ragioni davanti a chiunque. Ma giovedì avevano chiesto rispetto e solidarietà per 19 ragazzi chiusi in una stanza, la cui sicura colpa è di tenere al Catanzaro al punto da rischiare di tutto. Qualcuno lo ha fatto, qualcun’altro se ne è fregato. Il resto viene da sé, quando rabbia e panico vengono a contatto il caos ha la meglio. Ora forse è meglio rifletterci su, al mare o in montagna, sperando che le ragioni di un Ultras non debbano più far paura a nessuno. Sperando di non veder più piangere un bambino, lì dove i suoi primi sogni diventano realtà .
Ivan Montesano