I primi passi nel mondo del teatro Alessio Praticò li muove a cinque anni, quando era alunno in una scuola d’infanzia a Reggio Calabria. «Io facevo il padre di questa famiglia che non capiva le parole in inglese». Fu il primo ruolo da protagonista. Rivelatore, senza dubbio.
Adesso, che di anni ne ha 29, è l’attore principale dell’ultimo tv movie di Marco Tullio Giordana “Lea”, basato sulla vita di Lea Garofalo, uccisa brutalmente nel 2009 in un agguato organizzato dal suo ex compagno Carlo Cosco, boss della ‘ndrangheta. Nella pellicola Alessio interpreta proprio lui.
Un’occasione partita da molto lontano. Il suo percorso artistico è fatto di seminari, stage e, laboratori. Fino a una tappa, necessaria più delle altre: la scuola del “Teatro Stabile” di Genova. È qui che inizia a fare teatro, quello che ti forma, perché «erano le repliche la gavetta migliore».
Ha conquistato anche il cinema, diventando milanese nel film “Antonia” di Filomarino; per passare dall’altra parte della macchina da presa con il corto “Roghudi”. Le cose di cui parlare sono tante e anche se Alessio è stanco dopo una giornata di riprese, si concede all’incontro senza alcuna esitazione.
Quando ha capito che voleva fare l’attore?
«L’ho capito da bambino, ma col tempo avevo messo questo sogno in un cassetto e l’avevo chiuso. Finché nel 2004, l’anno del diploma, un amico di mio padre lesse sulla Gazzetta del Sud, che cercavano ragazzi per fare un laboratorio con il regista teatrale Francesco Marino. Il lavoro conclusivo fu lo spettacolo “L’importanza di chiamarsi Ernesto”. Fu come se il cassetto che avevo chiuso si fosse riaperto e ne uscì questa passione. Dopo il laboratorio saltò fuori questo dubbio amletico: “Ora che faccio? Vado all’Università o faccio una scuola di teatro?”.
Allora mi sono iscritto ad Architettura. Feci tre anni e due di specializzazione, ma in quegli anni vivevo una situazione di conflitto, perché sentivo il bisogno di fare una scuola di teatro e temevo che lo scorrere del tempo, potesse portarmi a quell’età in cui uno si dice: “Non puoi fare più niente”. Finita l’università, nel 2010 feci i provini per alcune scuole ed entrai a Genova. Se non avessi fatto questo passo, non avrei mai saputo come sarebbe andata a finire».
Quando era ancora uno studente, è stato notato da Ferdinando Cito Filomarino che la volle come protagonista del suo film “Antonia” (Pozzi, giovane poetessa milanese degli anni 30, morta suicida a 26 anni). È stato il suo esordi al cinema?
«Sì, nel 2013, mentre stavamo preparando l’esame di diploma, vennero alle prove Ferdinando e Stella Savino, che si occupava del casting del film. Restarono colpiti dal mio lavoro. Dopo tre provini mi presero e quello fu il mio esordio cinematografico».
Dal 2004 a oggi ha fatto tanto teatro. C’è un lavoro a cui è particolarmente legato?
«Ho avuto l’onore e il piacere di fare questo spettacolo che si chiama “Fratelli di sangue”(Elling & Kjell Bjarne) con la regia di Mauro Parrinello, che parla della malattia mentale col sorriso: si ride per quello che accade e non di quello che accade. È la storia di questi due giovani uomini che, dopo avere vissuto per anni in un istituto psichiatrico, vengono mandati a vivere da soli.
Dovranno imparare a essere delle “persone normali”. Abbiamo lavorato tantissimo per portare avanti questi due personaggi e per raccontare l’umanità e la purezza di queste persone che hanno disturbi autistici legati a traumi infantili. Per interpretare questo ruolo mi sono dovuto trasformare completamente nel corpo, nel linguaggio, nell’atteggiamento.
Cammino curvo quasi per tutto il tempo. La soddisfazione più grande è arrivata un giorno, dopo una replica, quando una signora si avvicinò dicendomi: “Volevo farti i complimenti perché mio figlio ha il tuo stesso problema e io guardando lo spettacolo ho rivisto lui”. Piansi. Questo vuol dire che si può fare del buon teatro se uno si impegna».
Ha prodotto e realizzato il cortometraggio “Sradicati”, incentrato sulla vita del borgo di Roghudi. Con questo lavoro, lo scorso ottobre, è stato premiato al Montelupo Fiorentino Film Festival, come migliore regia di documentario. Come è stato mettersi dall’altra parte della macchina da presa?
«Lavorare con Vittorio De Seta in “Articolo 23” mi ha insegnato tanto. Questa occasione è giunta per caso. L’anno scorso tornai a Reggio e decisi di visitare Roghudi, per me sconosciuta. Appena arrivai lì, rimasi impressionato da questo paese abbandonato, ma dotato di una triste bellezza. Il mio primo pensiero fu: “Io devo raccontare qualcosa su questa gente sradicata e portata giù al mare”. Carmelo Toscano, Gianni Siclari e Giovanni Favasuli (che con la canzone “Facimu Rota” cura la colonna sonora del corto), mi hanno appoggiato e sostenuto in questo progetto. In tre giorni feci le riprese arroccandomi un po’ ovunque con la mia reflex».
Lei è il protagonista di “Lea”, ultimo film di Marco Tullio Giordana, basato sulla vita di Lea Garofalo, che verrà trasmesso in prima serata il 18 novembre su Raiuno. Quanto ha lavorato per ottenere questo ruolo?
«Ho fatto cinque provini per avere la parte, di cui gli ultimi due con Marco Tullio Giordana. La cosa strana, che non pensai sul momento, fu che esattamente 14 anni fa, io andai con la scuola al cinema a vedere “I cento passi”.
Non avrei mai pensato che dopo 14 anni, avrei fatto il provino con lui per un film che racconta una storia parimenti importante come quella di Peppino Impastato».
Nel film è Carlo Cosco, ex marito di Lea e mandante del suo omicidio. Come si è preparato a interpretare questo ruolo?
«Fin dall’inizio, il primo approccio è stato quello di non giudicare in alcun modo il personaggio, rispetto a tutto quello che è successo. Il mestiere dell’attore è quello di interpretare, non di giudicare.
Ho visto e studiato dei video del processo a Carlo Cosco per carpirne i movimenti del corpo, il linguaggio e l’atteggiamento. Li ho studiati, ma non in maniera approfondita, perché c’è il rischio che ti costruisci degli schemi e invece molte volte andare d’istinto e avere delle percezione è più funzionale per quello che devi fare. Quello che volevo, e che spero di aver fatto assieme a Marco Tullio, è stato di evitare di mettere in scena lo stereotipo del cattivo e dell’uomo di mafia.
Non c’è una faccia che va a connotare l’essere cattivo o l’essere buono. Poi stiamo sempre parlando di cinema e non di documentario, quindi c’è una verosimiglianza che rimanda a quella cosa, ma non lo è. Ho voluto raccontare anche la fragilità umana di questa persona. In questi casi si cerca di essere più fedeli possibile al personaggio che devi interpretare, soprattutto volendo fare uscire fuori la credibilità».
C’è stato un momento in cui ha avuto difficoltà a interpretare questo ruolo?
«Sì. Mi ricordo una scena in cui dovevamo prendere in giro in maniera spregevole delle persone che venivano lì a chiedere aiuto e io mi sono sentito un ignobile nel farlo. Un’altra volta, Marco Tullio mi disse che avrei dovuto far piangere Denise da piccola. Girammo la scena. Io cominciai a dire le battute urlando con la bambina che si mise a piangere e che, per due giorni, non volle più vedermi».
“Lea” è stato il film d’apertura del Roma Fiction Fest mercoledì sera. Una considerazione a caldo all’indomani della partecipazione…
«Sono partiti cinque minuti di applausi alla fine del film. Poi, appena si sono accese le luci, è ripartito un applauso altrettanto lungo e la gente si è alzata in piedi per omaggiarci. Eravamo emozionati dalla passione che il pubblico ci stava dimostrando. Marco Bellocchio, Giulio Scarpati, Marco Risi e altri attori e addetti ai lavori presenti in sala, si sono complimentati per la credibilità dei nostri personaggi».
A cosa sta lavorando adesso e quali sono i progetti futuri?
«Al momento sto lavorando a una serie televisiva in quattro puntate prodotta dalla Taodue, a fianco di Peppino Mazzotta e Marco Bocci. Stiamo girando tra Gioia Tauro e Roma e andrà in onda il prossimo anno su Canale 5. A teatro, a parte le repliche previste per gennaio del “Federico II me” a Torino, ci sono progetti con degli ex compagni di classe. Vediamo come andrà a finire».
Miriam Guinea corcal