Parola d’ordine, imbarazzo. Non c’è altro termine per definire lo stato d’animo che trapela dalle parole del sottosegretario Graziano Delrio, quando il 17 ottobre 2012, in qualità di sindaco di Reggio Emilia viene interrogato dai pm della Dda di Bologna Roberto Alfonso e Marco Mescolini e dal sostituto procuratore della Dna, Roberto Pennisi.
Da lui, i magistrati vogliono sapere non solo come mai abbia partecipato alla processione del Santissimo Crocefisso a Cutro – evento considerato di enorme importanza simbolica dal clan Grande Aracri – ma soprattutto perché, insieme ad alcuni consiglieri comunali, abbia accompagnato dal prefetto alcuni imprenditori colpiti da interdittiva antimafia. Questo però Delrio lo capirà dopo.
I pm iniziano infatti semplicemente col chiedergli se approvi le iniziative del prefetto Antonella De Masi, che con provvedimenti e interdittive ha bloccato più di un’impresa del Reggiano, ma ha anche ritirato il porto d’armi a politici pizzicati a cena con uomini dei clan. Azioni che per l’allora sindaco vanno «totalmente appoggiate, poi qualcuno dice che esagera nel senso che vede fantasmi dappertutto, ma io fino a prova contraria preferisco essere prudente in questo caso».
LA PRUDENZA DI DELRIO
E Delrio, nonostante nel corso del suo mandato abbia commissionato al sociologo Enzo Ciconte uno studio sulle dinamiche criminali in città, è più che prudente nell’affermare «non conosco penetrazioni o collaborazioni tra imprese legate alla ‘ndrangheta». Una risposta che sembra lasciare interdetti i magistrati e spinge Delrio ad affannarsi a chiarire le sue parole.
Spiega di non saper indicare nello specifico «le imprese reggiane, diciamo, perché facciano cartello per avere .. cioè qualcuno che faccia da veicolo ad imprese, diciamo, legate a gruppi criminali. E mi riferisco, quando parlo di imprese reggiane intendo imprese reggiane a tutti gli effetti, anche quelle fatte da calabresi residenti a Reggio Emilia». Tuttavia poco dopo lo stesso ex primo cittadino, non senza imbarazzo è costretto ad ammettere che «da quello che mi è stato in tutti questi anni, c’è una sensibilità e una difficoltà differente magari per un’impresa calabrese a dire dei “no” rispetto ad un’impresa reggiana».
«NON SAPEVO CHE IL BOSS FOSSE PROPRIO DI CUTRO»
Allo stesso modo non è senza imbarazzo che l’allora primo cittadino di Reggio Emilia risponde ai magistrati quando gli chiedono conto della sua partecipazione alla processione del Santissimo Crocefisso a Cutro, ma soprattutto se sia a conoscenza del fatto che proprio lì è di casa il boss Nicolino Grande Aracri.
Delrio inizialmente dice di non sapere che il capobastone fosse di Cutro, poi di fronte alla perplessità dei magistrati che gli ricordano come proprio la criminalità cutrese sia stata oggetto dei provvedimenti prefettizi, corregge il tiro: «Se lei mi chiede: “Lei sa che Grande Aracri è nativo di Cutro?”, la mia risposta è non lo so, non ne sono sicuro, cioè non lo ricordo francamente, so che è collegato con la criminalità legata alla .. cioè diciamo .. anche a Cutro .. ma non so se è di Cutro, di Steccato anziché del paese vicino, insomma questo era il senso della mia risposta». Un salvataggio in angolo su cui i magistrati non insistono, anche perché interessati a ben altra e più rilevante questione.
CHI RAPPRESENTANO I CUTRESI IN CONSIGLIO COMUNALE?
Qualora sia in grado di dirlo, da Delrio vogliono sapere a che titolo in consiglio comunale siedano esponenti della comunità cutrese, se rappresentino i calabresi emigrati a Reggio o il partito sotto la cui insegna militano.
La domanda spiazza Delrio che abbozza «queste persone che sono reggiane a tutti gli effetti perché sono a Reggio da trent’anni e fanno professioni varie hanno un bacino elettorale normalmente che si individua durante le campagne elettorali che normalmente è fatto da una rete di famiglie, di persone che si conoscono e che in gran parte, diciamo così, anche se non totalmente, sono di origine calabrese». Rappresentanti di tutti i partiti, sottolinea il sindaco, «provengono due dal Pd, dal Partito democratico, e .. uno da Forza Italia, ex Forza Italia, quindi Popolo della Libertà». Uno snodo centrale della – faticosa – chiacchierata di Del Rio con i pm, che proprio sul punto lo incalzano.
IMBARAZZANTE DELEGAZIONE DAL PREFETTO
È il sostituto procuratore Roberto Pennisi a chiedere a bruciapelo «è avvenuto che qualcuno dell’amministrazione comunale o del suo partito, abbia caldeggiato davanti al prefetto la posizione di soggetti svolgenti attività imprenditoriale che si ritenevano ingiustamente colpiti dalle iniziative prefettizie?». Una domanda di cui i pm conoscono la risposta, ma che rivolgono all’ex sindaco per saggiarne la reazione. E davanti alle tre toghe l’attuale sottosegretario alla Presidenza del consiglio è costretto ad ammettere di averlo fatto personalmente.
Delrio si spiega «questo tema delle infiltrazioni ‘ndranghetiste e della .. e della questione calabrese diciamo così .. assume un contorno anche appunto di linciaggio mediatico nei confronti della comunità in generale. No? Cioè spesso veniva messo un’equazione calabrese uguale mafioso e quindi persone legate alla comunità mi avevano espresso questo disagio». La comunità, aggiunge l’allora sindaco «si sentiva accusata in maniera generica e dall’altro lato in maniera invece così .. loro non potevano difendersi. o magari creava diffidenza tra loro e il Prefetto.
Al che io ho detto: “Beh se avete .. “. e mi hanno chiesto di poterla incontrare: quindi io ho portato alcuni esponenti, adesso non ricordo quali».
DESTRA E SINISTRA, MA TUTTI CUTRESI
Insieme a lui – riferisce ai pm – c’era «sicuramente» l’allora consigliere Pd Salvatore Scarpino e «altri due o tre esponenti diciamo così della comunità». Una delegazione di quattro.
Delrio crede di ricordare Antonio Olivo, altro consigliere comunale del Pd, e Rocco Gualtieri, consigliere del Pdl invitato a quella cena al ristorante Antichi Sapori, in cui – rivelerà intercettato il suo capogruppo in consiglio comunale dell’epoca oggi finito in manette, Giuseppe Pagliani – gli uomini dei clan avrebbero chiesto agli azzurri di usare il partito per contrastare le iniziative antimafia del prefetto e dell’allora presidente della provincia Sonia Masini.
Ne manca uno, ma l’attuale sottosegretario proprio non lo ricorda perché: «Li ho accompagnati dal prefetto perché ci fosse, perché il prefetto potesse spiegare le ragioni delle sue .. perché loro avessero garanzie che in tutto questo – anche se a noi sembrava francamente superfluo perché il prefetto viene dalla Sicilia quindi – non c’era una vena antimeridionalista o discriminatoria nei confronti della comunità».
OMERTÀ? «UN FATTO CULTURALE»
Certo, è costretto ad ammettere Delrio, agli inviti a denunciare le connivenze mafiose di cui possano essere a conoscenza hanno sempre risposto picche. «Nessuno – sottolinea il sottosegretario – mai si espone in maniera personale». Ma alla domanda sul perché questo succeda, Delrio sembra rispondere con un dribbling.
«Alcuni – afferma – hanno un eccesso di prudenza. Nel senso che dicono: “Noi poi non sappiamo realmente le cose! E quindi non vogliamo compromettere famiglie e persone in processi sommari”. Questa è una risposta tipica che loro danno no? Quindi che dicono: “Non si fanno processi sommari a tal dei tali solamente perché terzo parente di tal dei tali!”». Risposte «parenti di atteggiamento un tantino omertoso» sottolinea Pennisi, di fronte al quale Delrio replica: «Beh certamente io rilevo il fatto che la comunità diciamo in generale, una collaborazione costante, diciamo così, di denuncia, non c’è», ma dice quasi a compensare l’ex sindaco «d’altra parte non riesco a spiegarmelo, perché sicuramente c’è da parte loro, in qualche modo, una forma culturale di non esposizione».
Per Delrio «la preoccupazione di non immischiarsi in queste cose», il «farsi gli affari loro» sarebbe addirittura «un fatto culturale», ma lui – diligente – racconta «io gliel’ho detto molte volte. Diventano completamente cose loro nel momento in cui emergono questi fenomeni. Quindi non se ne possono disinteressare». Eppure, lo stesso Del Rio sottolinea: «Io non l’ho visto fare con questa forza».
PROBLEMA PREFETTURA? NO, SÌ, MA…
Eppure, gli fanno notare i magistrati, quando dalla comunità arriva la richiesta di interloquire con il prefetto, l’allora sindaco si presta a fare da tramite. Ma – chiarisce – non sarebbe stato per le interdittive, ma «forse fu in occasione di .. un attentato incendiario ad un’auto o una roba del genere forse, che dopo si scatenò il tema delle intimidazioni».
Una risposta che spinge i magistrati a chiedere come mai – se non erano le interdittive il problema – proprio il prefetto è stato individuato come interlocutore. «Perché – risponde Delrio – rappresenta comunque in questo momento il simbolo di questa lotta che si vuole fare e quindi ovviamente è stata vista in questo .. Cioè si chiedeva di avere un’interlocuzione per collaborare, per dare l’idea della collaborazione e per evitare la criminalizzazione ma fu offerta anche collaborazione insomma, dal punto di vista generale».
Risposte su cui i magistrati sembrano non voler infierire. Del resto, in sede di richiesta di misure, a proposito di Delrio si ricorderanno anche di citare le dure prese di posizione contro gli autori del danneggiamento di chiara matrice mafiosa all’impresa Bonifazio – che nella notte del 9 novembre 2012 ha visto i suoi 9 camion andare in fumo – come contro la delirante intervista ai fratelli Muto, imprenditori del reggiano la scorsa settimana finiti al centro dell’inchiesta – che tendevano a negare il problema dell’infiltrazione mafiosa nella zona.
Una questione che la maxioperazione Aemilia sembra essere destinata ad iniziare a chiarire.
Alessia Candito
corrieredellacalabria