Quattro ergastoli e 25 anni al quinto imputato. Si chiude con le più severe delle condanne il processo per la scomparsa, l’omicidio e la distruzione del cadavere di Lea Garofalo, la testimone di giustizia calabrese che aveva raccontato agli inquirenti fatti di una faida di ‘ndrangheta, uccisa e bruciata a Milano nel 2009.
La Cassazione ha confermato le responsabilità di tutti e cinque gli imputati: il compagno Carlo Cosco, il fratello di questi Vito, Rosario Curcio e Massimo Sabatino, sconteranno il carcere a vita; la pena più bassa è quella per Carmine Venturino, ex fidanzato della figlia, Denise, che in appello aveva ottenuto uno sconto per la collaborazione nel ritrovamento dei resti della donna. Quello di Lea Garofalo fu un omicidio orchestrato con metodi e motivazioni mafiose per “cancellarla”, un caso di “lupara bianca” nei confronti di una donna che aveva scelto una strada diversa. “Oggi per me spero si chiuda un ciclo della vita e se ne apra un altro”, ha detto Denise Cosco incontrando in mattinata la presidente della Camera, Laura Boldrini. “Denise – ha scritto Boldrini, appreso l’esito del processo – è già un emblema di coraggio e determinazione contro la sopraffazione mafiosa e di genere. Una violenza che, come dimostra questa sentenza, si può combattere e vincere”.
Secondo la Corte di Cassazione non ci fu nessun “raptus”, come in una tardiva e parziale confessione nel processo davanti alla corte d’assise d’appello di Milano aveva sostenuto Carlo Cosco, sperando di evitare l’ergastolo e di scagionare i suoi sodali. Nell’udienza davanti alla prima sezione penale il 5 dicembre, attraverso il suo legale, Cosco aveva avanzato nuovamente la richiesta di escludere l’aggravante della premeditazione. Il collegio si era riservato sulla decisione, e oggi si è pronunciato per il rigetto dei ricorsi di tutti gli imputati.
Confermando, quindi, quanto ricostruito dai giudici milanesi. Cosco aveva preparato da anni il piano: Lea Garofalo doveva essere tolta “dalla faccia della terra non solo uccidendola ma anche disperdendone ogni traccia materiale”, perché lui non aveva mai “accettato” le sue “scelte” di “libertà” sia “rispetto alle regole di vita familiare, sia rispetto a quelle imperanti in ambito criminale”: aveva ricostruito così il movente la sentenza d’appello. La donna, secondo la dichiarazione di Venturino, era stata strangolata con un cordino da Carlo Cosco e il suo corpo era stato dato alle fiamme. E i giudici non hanno escluso che “prima di essere bruciato e sbriciolato il corpo sia stato immerso in sostanze corrosive”. Tesi che confermerebbe parzialmente quanto accertato nel processo di primo grado, nel quale l’ipotesi era che la donna, della quale non era stata ancora rinvenuto il cadavere, fosse stata sciolta nell’acido. I pochi resti sono stati rinvenuti in un tombino, in Brianza, nel novembre 2011, tre anni dopo la sua scomparsa. La Cassazione ha anche condannato gli imputati al pagamento delle spese processuali e al risarcimento alle parti civili, fra cui la figlia Denise e il Comune di Milano, città dove Lea voleva costruirsi una nuova vita, ma dove non è riuscita a scampare alla morte.
“A Lea Garofalo le istituzioni e gli italiani devono ancora tanto. Ecco perché il modo migliore per ricordarla è approvare al più presto una legge che garantisca i testimoni di giustizia e le loro famiglie”, ha detto Giuseppe Lumia, componente della Commissione parlamentare Antimafia.