Intervistiamo

Il boia di Nicola merita l’inferno [di Claudio Magris]

Scritto da Redazione

20140120_bimboTalora si fa fatica a rimanere contrari alla pena di morte e oggi è difficile pensare che il posto più consono agli assassini – sicari e mandanti, egualmente immondi, di tre persone, fra cui un bambino di tre anni, Nicola, ucciso e bruciato al pari degli altri – non sia la forca o altra analoga soluzione acconcia. Il sangue di Nicola – come quello di Domenico Gabriele massacrato mentre giocava a calcetto, di Giuseppe Di Matteo sciolto nell’acido e di molti altri bambini – è una macchia incancellabile che sfigura la faccia del mondo.

È una sconfitta che dimostra come la guerra contro la malavita organizzata sia, nonostante molti sforzi generosi ed eroici sacrifici, una guerra perduta e destinata a essere perduta se non viene condotta altrimenti. Gli antichi greci avevano due termini per indicare la guerra o meglio due tipi di guerra. Uno indicava la guerra per così dire limitata già nei disegni iniziali, quella che si propone non di distruggere l’avversario, ma di indebolirlo, di contenerlo, strappandogli un buon bottino e limitando le sue possibilità: quando la Francia e la Germania si scontrano nel 1870 nessuna delle due pensa, in caso di vittoria, di distruggere Berlino o Parigi, ma solo di rendere l’avversario meno temibile e di portagli via qualcosa.

L’altro tipo di guerra è quello che prevede e persegue, quale obiettivo inevitabile, la distruzione dell’avversario: Roma che sparge il sale sulle rovine di Cartagine mai più risorta, la Germania rasa letteralmente al suolo alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Contro la malavita organizzata, merdosa macelleria, lo Stato non persegue – forse non lo può, forse non lo vuole – una guerra di annientamento, bensì di contenimento, che non esclude trattative, patteggiamenti, compromessi. La malavita organizzata è un cancro e un cancro non può essere contenuto, arginato, ridotto in certi limiti. Può essere solo estirpato, amputato e poi gettato nelle immondizie. Forse non è materialmente possibile, in questo caso, amputarlo – forse perché si è già infiltrato in alcuni organi vitali dello Stato, forse perché la guerra d’annientamento è difficilmente compatibile con la normale vita burocratica, forse per impossibilità oggettiva o per altre ragioni. Ma se non è possibile, bisogna sapere di aver già perduto e che si può soltanto cercare di limitare le perdite, di salvare il salvabile.

Non perdiamo troppo tempo a parlare degli assassini, secondaria manovalanza del massacro. Protagonisti sono le vittime e specialmente Nicola. È morto a tre anni e la sua morte grida vendetta più del sangue di Abele, ma non è giusto pensare solo alla vita che non ha avuto. Anche la sua esistenza, come dice una pagina memorabile di Stefano Jacomuzzi a proposito di un bambino morto per malattia, è stata «piena di fatti, di parole, di sentimenti, voglie, grida, risa, pianto, corse, gioconde ghiottonerie, interrogazioni, stupori». In quei suoi tre anni Nicola probabilmente ha vissuto più dei suoi automi assassini. È soprattutto lui che conta in questa storia. Quanto ai suoi boia, per fortuna il Signore che accarezza i bambini è anche quello che ha sterminato con una lava di fuoco Sodoma e Gomorra. Talvolta viene da sperare che l’inferno davvero esista e sia eterno.

 

Claudio Magris, Corriere della Sera

 

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