“I calabresi? Sono antropologicamente inquinati dalla ‘ndrangheta“. Proprio così, antropologicamente.
No, non sono parole di Borghezio e neanche, spingendoci un po’ più indietro nel tempo, di Cesare Lombroso, il teorico del “calabrese criminale per disposizione genetica”.
L’autore della dichiarazione resa al Quotidiano della Calabria (mica alla Padania) è qualcuno di molto più vicino a tutti noi: il senatore del Pdl Antonio Stefano Caridi (in foto) da Reggio, già consigliere regionale e Assessore alle attività produttive con Scopelliti.
Nel suo bell’articolo sulla questione, tra le pagine di zoomsud, Aldo Varano scrive: “Sono da tempo convinto che molti calabresi abbiano un atteggiamento razzista sui propri corregionali […] Ma il razzismo dei calabresi verso i calabresi, del resto, serve a un bel po’ di calabresi (non è un gioco di parole). Il senatore Caridi, per esempio, usa le nostre tare per raggiungere un obiettivo politico” (qui la risposta di Caridi a Varano).
E qual era l’obiettivo del senatore Caridi? Presto detto: giustificare l’esistenza delle liste bloccate alle elezioni politiche. Insomma, scegliere dall’esterno, a Roma magari, chi candidare a Camera o Senato (e in quale posizione farlo), sarebbe necessario per evitare l’inquinamento tipico dei calabresi. Non c’è che dire, un modo ingegnoso per giustificare un sistema definito dal suo stesso ideatore, l’indimenticato Calderoli, “una porcata” (o più ironicamente porcellum secondo il professor Sartori).
Ma il cittadino calabrese proprio non riesce a farsi sentire al di là del Pollino, forse perché non esiste un’identità comune cui fare riferimento o forse perché col “dividi et impera” hanno prosperato tutti i politici di questa striscia di terra, dall’Unità in poi. Ci sono milioni di lobby nel nostro paese (da quella degli amanti dei gatti randagi ai vegani) che quotidianamente influiscono sui processi decisionali ad alto livello, ma una lobby calabrese (non criminale, s’intende) proprio no.
Anzi, una parola contro i calabresi può addirittura portare benefici alla carriera. E così il senatore Caridi aveva finito per essere nominato, su indicazione diretta di Schifani, membro della commissione parlamentare antimafia. Un ruolo delicato, delicatissimo.
Ad ostacolare la nomina del senatore, ci ha pensato però la cinquestelle Dalila Nesci, giovane deputata di Vibo che sin dal primo momento aveva chiesto la rinuncia del senatore all’incarico attraverso appelli ai presidenti di Camera e Senato e perfino alla deputa del Pdl Rosanna Scopelliti, figlia del giudice Antonino ucciso dalla ndrangheta.
Ma perché tanta opposizione? La solita “grillina” disegnata dalla stampa? Non esattamente.
La Nesci aveva fatto sapere che in una relazione della Dda di Genova, supportata da un’indagine della Dia del capoluogo ligure, Caridi risultava sostenuto nella sua attività politica da una potente cosca della ‘ndrangheta. Proprio il senatore Caridi, quello dell’ “antropologicamente”.
Se a determinare il destino di un uomo, nei tribunali è solo la sentenza definitiva, in politica deve valere la semplice “opportunità”. Lo diceva anche Paolo Borsellino: “non servono le condanne penali per pronunciarsi sulle vicende pubbliche“.
Così poche ore fa è arrivata la rinuncia dello stesso Caridi che fa sapere: “Rinuncio per evitare speculazioni politiche sulla mia persona che non servono alla Calabria e che potrebbero mettere a rischio il lavoro sin qui compiuto al Senato. Sul mio conto si sono accese solo sterili polemiche“.
Le formule sono quelle del “dimissionato” insomma, non del dimesso. Caridi continuerà a fare legittimamente il senatore (almeno fin quando la sua posizione in quelle carte genovesi non sarà chiarita) ma non opererà quale membro della commissione antimafia.
E forse, anche senza relazioni pericolose e dubbi atroci, le elementari ragioni di opportunità avrebbero potuto attivarsi già dopo l’utilizzo di quel semplice (ma non troppo) avverbio. “Antropologicamente”.
Fabrizio Scarfone
@fabriscar