Finale del fim “Io speriamo che me la cavo”. Nella pellicola della Wertmüller la città di Arzano diventa “Corzano”
Dopo la polemica e per nulla autoironica Isola del Liri, il calendario ci propone una tappa campana, l’ennesima di questo campionato, per la partita contro l’Arzanese. Non si giocherà però ad Arzano, la cittadina a nord di Napoli, ma ad Aversa Normanna ( troverete il pezzo sulla città di Aversa già pubblicato in Ottobre).
Per questo numero di SlowFoodball ho provveduto a contattare un amico, Gennarino Esposito, uno degli ex ragazzini di “Io speriamo che me la cavo”, la raccolta di temi di alcuni scolari di Arzano, diventata bestseller negli anni ’90 grazie al maestro Marcello D’Orta (e da cui fu tratto anche il film di Lina Wertmüller con Paolo Villaggio). Gennarino era il ragazzino della casa tutta sgarrupata, lo ricorderete senz’altro. Ora è un trentenne, un uomo. Gli ho commissionato una sorta di tema, vent’anni dopo: La mia casa. Di nuovo.
Buona lettura.
La mia casa non ce l’ho ancora. A trent’anni abito con Concetta, la mia fidanzata, in due stanze seminterrate di proprietà del signor Mattone. Gli diamo 250 euro ogni trenta giorni, escluse le spese. Esse includono spesso l’intervento dei pompieri, che quando piove troppo ci aiutano a non finire annegati nell’acqua sporca della strada che dopo essersi infilata nei tombini si infila pure nelle nostre finestre.
D’inverno fa così freddo che ci corichiamo vestiti dalla testa ai piedi. La mattina facciamo colazione col piumino. Io però so che non ci dobbiamo lamentare perchè tanti vivono come noi. Se nei romanzi della televisione vedete la gente che fa la colazione in giacca e cravatta (mentre voi la fate in pigiama) compatiteli: come me, pure loro ci avranno il freddo e l’acqua dentro casa. Ridge ha freddo da più tempo di me e non ha mai fatto problemi. Quella dei miei genitori era una casa tutta sgarrupata che quasi mi sentivo sgarrupato anch’io: però non ci bagnavamo.
Arzano è sempre la stessa città: non è il paradiso, non è l’inferno. È il posto dove viviamo per qualche coincidenza. Io penso che tante volte il paradiso e l’inferno non lo riconosciamo finchè non viene qualcuno e ce lo dice in faccia: “tu stai all’inferno!”. E allora tutto quel calore diventa insopportabile e vedi il diavolo pure dove non ci sta.
Noi avemmo il cinema che ce lo disse. Quel film coi nostri temi (tra parentesi io non ho fatto una lira sopra la pellicola) ci mostrò dove stavamo. Ad alcuni in fondo piacque, ad altri gli fece schifo. Quelli che gli fece schifo scapparono lontano. Uno è a Roma, lavora in una banca e torna a Natale con una vasca piena di capitoni. L’altro è a Milano, lavora in un supermercato e torna ad Agosto con i dolori alla schiena. Un altro ancora è in Germania: nessuno sa cosa fa, non torna mai. Quelli a cui piacque siamo qua, a domandarci cosa caspita ci piaque di questo posto per restare. Ma lo puoi capire anche tu, caro Beppe, che non vieni dall’America. Io non continuai troppo i miei studi, ma posso dire una cosa che ho imparato alle scuole elementari: l’abitudine alimenta la paura. Pù ci abituiamo ad una cosa, qualsiasi cosa veramente, più paura abbiamo di lasciarla. Non ti abituare mai.
Ad Arzano, l’unica cosa che tu e i tuoi amici potete visitare è la gente che prova a campare. Se sei in crisi, invece di pigliare le pillole che a mio padre gli hanno trasformato lo stomaco in una fonderia con gli operai in cassa integrazione dentro, ci devi venire almeno una volta.
C’è chi durante la notte raccoglie con un motocarro tutto il ferro vecchio di mezzo la strada. Una notte intera per trenta euro, rischiando pure una multa che non può pagare. C’è chi fa i mercati, chi vende il pane senza autorizzazione, chi ristruttura e costruisce case senza avere un solo anno di contributo per la pensione. Qui non c’è tempo per stare con le mani in mano. Il futuro è una minaccia che sta per arrivare, è un tempo sempre troppo vicino. Lo so bene io, che col tempo ci lavoro: riparo orologi vecchi e nuovi dentro un piccolo negozio che ha la forma di una nicchia. Forse anche per questo mi chiamano San Gennarino delle lancette. Il mio lavoro mi piace e conosco tanta gente.
C’è pure chi sta bene, chi vive come si può vivere quando la felicità è un obiettivo, non solo una bella speranza. C’è chi sta bene di famiglia, c’è chi ha fatto fortuna con qualche buona impresa, chi ha fatto i soldi con le professioni dopo aver studiato, chi ha vinto un concorso e ha festeggiato come dopo un superenalotto. Poi ci sono quegli altri, quelli che fanno traffici che non voglio neanche nominare, perchè c’è tanta brava gente che è molto più di quella malamente.
Poi c’è il Napoli, Cavani, Lavezzi e Marekiaro. Scusa, l’Arzanese non la seguo tanto, ma so che ci sta il figlio di un mio cliente. Vedere il Napoli giocare e vincere contro quelli del nord mi fa ancora emozionare. L’hai provato pure tu ai tuoi tempi, lo sai che cosa significa il pallone quando hai poco altro da festeggiare. Quelli che sanno parlare lo chiamano riscatto. Per me è come avessi il padreterno alla stessa altezza e lo potessi finalmente guardare in faccia: “Scusami un poco ma ti pare giusto come stiamo combinati?”. E per una volta allungo la mano e piglio quello che mi spetta, senza che lui niente possa fare.
Concetta vorrebbe un figlio, un giorno o l’altro. Io non voglio ancora, e qundi litighiamo. Quando succede scappo da mio padre. Mentre è impegnato a fare qualche cosa lo guardo negli occhi sempre umidi che hanno i vecchi… e senza dirgli niente lo ringrazio. “Papà, ma come hai fatto?”. Non ha mai tenuto una lira in più di quella che serviva per mangiare, ma non è sceso a compromessi. Quando mi sento debole, quando qualcuno mi spiega per filo e per segno che con una settimana o due di “un altro lavoro” potrei cambiare casa, penso a lui. È come essere il figlio di un grande industriale, come se l’onestà fosse un grande patrimonio di famiglia accumulato in tanti anni di sacrifici. Non potrei mai buttarlo a mare…
Beppe, sono uscito di sicuro fuori tema. Me lo disse il maestro, che quello era il mio limite. Mi hai chiesto come è la mia casa tutta sgarrupata dopo due decenni. Il problema è che non lo so ancora. Facciamo che me lo richiedi tra vent’anni…
Beppe Luglio