Chiariamolo subito: domenica prossima l’attrazione principale di Melfi sarà il 3-4-3 di Ciccio Cozza. C’è infatti da riscattare innanzitutto un pesante 4-0 subito lo scorso 30 gennaio, in piena era spartana/stracciona. Ma se avrete la pazienza di leggere queste righe, e se il vostro viaggio lo consentirà, scoprirete che Melfi merita una visita attenta o perlomeno un approccio più consapevole di quello che il tifoso medio riserva alle sue mete (autogrill, bagni autogrill, stadio). Raggiungere Melfi significa attraversare tutta la Basilicata (più o meno 20 minuti a piedi) fino all’estremo nord del confine pugliese. Anzi, all’incrocio dei pali tra Puglia, Lucania e Campania. Melfi si colloca nel Vulture, una storica area dominata dal monte Vulture (1326 m), un vulcano inattivo fin dal Pleistocene, quando anche l’ex sindaco Olivo era un fanciullo coi calzoni corti. La zona è ricca di boschi, torrenti e pascoli, davvero un bel vedere. Un’area abitata sin dal neolitico da popolazioni come i Dauni (da non confondere con i Fauni) e i Sanniti (storica la rivalità con i catanzaresi “nemici da sempre ma felici di rivedervi”). Una gran quantità di reperti dell’epoca neolitica, ma anche dell’età del bronzo sono esposti al Museo archeologico Melfese, aperto dalle 9 alle 20 in via Castello. Poco meno di tre euro per dare una sterzata culturale alla domenica e argomenti importanti per convincere mogli e compagne a rinunciare all’ultimo weekend su un lettino a Montepaone. Il Museo Archeologico sorge all’interno del Castello, che domina Melfi con la sua imponenza. Edificato dai normanni, ricostruito da Federico II, dotato di nuove torri da Carlo I d’Angiò, rimaneggiato dai Caracciolo e dai Doria al termine di un recente Brescia-Samp, la costruzione non presenta evidentemente un’unità stilistica. Conserva però il suo carattere medievale di fortezza inaccessibile, anche in virtù delle dieci torri che ne delimitano il perimetro. Insieme alla cinta muraria medievale, che circonda per oltre quattro chilometri il centro storico di Melfi, il castello sarà il baluardo che mister Rodolfi opporrà contro il 3-4-3 di Cozza, a difesa della sua panchina. Non è invece un’attrazione paesaggistica (ma i sindacati potrebbero obiettare) l’area industriale Sata, una delle più importanti del sud Italia che ospita lo stabilimento Fiat. Pomigliano, Termini Imerese e Melfi: di solito quando appare il maglioncino blu di Marchionne in tv, i lavoratori dei tre stabilimenti meridionali cominciano a tremare. Come i tre operai di Melfi, licenziati perché accusati dall’azienda di manomissione durante uno sciopero, poi reintegrati dopo la sentenza di un giudice, prima di essere affossati poche settimane fa dalla sentenza di secondo grado. Nell’area San Nicola, quella dello stabilimento, sorge anche l’inceneritore Fenice al centro di denunce da parte di ambientalisti e associazioni sul territorio perché responsabile, secondo le accuse, di aver inquinato le falde acquifere del fiume Ofanto. Mica tanto salubre. In compenso, quando sarete stanchi del giro, troverete qualcosa di meglio (non il difensore) di una rustichella da autogrill per rifocillarvi. I Maccuarnar (maccheroni freschi) col ragù di coniglio o di maiale e le lagane (tagliatelle fresche) con farina di castagna sazieranno gli stomaci affamati di carboidrato e Catanzaro. Oppure potrete “accontentarvi” del pancotto alla melfitana (un preparato con pane, patate e rape cotto insieme a un soffritto di aglio, olio e peperoncino): un piatto della tradizione locale, povero ma delizioso. Con le carni locali andrete sul sicuro, bagnando il tutto col celebre Aglianico del Vulture, DOCG dal 2010. Non abusatene però. Tra gli effetti collaterali di questo rosso importante, c’è il rischio di scambiare Cozza per Guardiola. E allora inchia stu bicchera…
Fabrizio Scarfone