Ne è passato di tempo. Un decennio, a momenti. Finale play-off, quasi promozione. Me ne stavo in curva Ovest con una sciarpa stretta intorno al collo e un po’ di desaparecidos tutti intorno: la Capraro con le sue coreografie, un amico dell’adoloscenza perso da anni e un migliaio di altri tifosi giallorossi al fianco. Poi le incredibili papere di un portiere, la paura di non farcela, la quasi certezza e infine, puntuale e implacabile, la sconfitta. Doppietta di Campanile, micidiale 1-3 e Sora promosso.
Credevo fosse più o meno la fine del mondo. Un dolore vero. Ma ero solo un ragazzo molto fortunato e il dolore stava al mio quotidiano come il genio ai dirigenti dell’effeccì. Il Catanzaro sarebbe rimasto in serie C2 ancora un anno, pensavo. Saremmo esistiti per un altro lungo campionato solo nelle ultime pagine dei quotidiani sportivi – esattamente poco prima del golf – fissi sul quel maledetto 218 del televideo Rai. E chissà quali altre squadre dai nomi impronunciabili avremmo dovuto incontrare. Allora vidi un vecchio signore che di mestiere faceva il fabbro, sedere a fatica sopra i gradoni della curva. Lì, in mezzo ai tifosi ancora in piedi e immobili. Mi avvicinai facendomi spazio tra quelle gambe semi-paralizzate, lo guardai da vicino e gli chiesi se avesse bisogno d’aiuto; mi prese il braccio con gentilezza. Ricordo ancora la sua mano grossa, scura, dura e forte. Una mano che ne aveva passate tante, mica una di quelle bianche e delicate da ragazzino come la mia. “Figghiumma, mò mi potera passara nu trenu ‘ncoddhu e non sentera nenta. Mi poteranu minara, ed eu stacera fermu. Grazie beddhu meu. Staju mala sì, ma non ci poi fhara nenta“. Ne sono sicuro: fu allora che m’innamorai davvero del Catanzaro. Durante tutta l’adolescenza avevo solo sfiorato ciò che rende così affascinante questa squadra. Non sarebbero state le grandi vittorie del passato a rendermi orgoglioso, nè il legame (quasi l’equivalenza) con la città in cui ero nato. Il Catanzaro mi avrebbe per sempre ricordato quell’uomo, solo in mezzo a tanti sui gradoni dello stadio. Quel groppo in gola, quella delusione tanto forte, quell’insegnamento così difficile da accettare, ma così vitale… E c’è un’altra immagine che vedo nitida, oggi come allora, alla stregua della mano di quel vecchio fabbro: Salvatore Mancuso, il figlio del presidente Giovanni, in lacrime a bordocampo. Una mano sulla panchina, quasi a sostenersi, e l’altra a coprirsi il volto. Lo so, le lacrime contano poco, quasi nulla ormai. Piangono i concorrenti dei reality show, i politici colti con le mani nel sacco, pianse il consigliere regionale Claudio Parente ad Ascoli…e ha pianto anche Soluri lo scorso anno a Roma. Eppure quelle lacrime, le lacrime di Salvatore Mancuso, io continuo a ricordarle. Mi parevano così sincere che pensai: “non contesterò mai questa persona“. Ora, a distanza di quasi dieci anni, dopo Poggi, Parente, Pittelli, Aiello, Bove, ancora Soluri e Santaguida, dopo due fallimenti e troppe sconfitte, queste righe rappresentano il mio modo di razionalizzare quel ricordo di ragazzo. Solo un po’ di vecchia cronaca che non ha la pretesa di definirsi storia e una lezione personale che non intende proporsi come universale.
La vecchia cronaca inizia ai tempi dell’Us Catanzaro, quello vero, sparito all’epoca di Poggi e Parente dopo quasi ottant’anni di vita. È il momento di Giuseppe Soluri presidente. La sue squadre iniziano bene, vincono e pareggiano nel girone d’andata per poi puntualmente sgonfiarsi a febbraio. Preparazione atletica, inconsistenza economica, pura sfortuna…vallo a capire. L’Uesse comunque s’indebita presto a tal punto da finire in Tribunale con l’ex proprietario del Real Catanzaro che decide di mollare. Il tecnico e tifoso Maurizio De Filippo quantifica i debiti mentre nella città famosa per il vento, il morzeddhu, il ponte e i tavoli istituzionali, gli operatori economici si riuniscono decidendo di rilevare la squadra con una somma di circa 50 milioni a testa. In quel momento spunta Giovanni Mancuso (intercettato probabilmente dallo stesso De Filippo) che ringrazia tutti per le promesse di contributi ma annuncia di voler rilevare il Catanzaro senza alcun aiuto.
L’entusiasmo è alle stelle. La famiglia Mancuso può garantire solidità e successi. E la solidità infatti arriva subito. La nuova proprietà farà fronte a tutti i creditori della gestione Soluri, “compreso il salumiere dell’ex presidente”, confiderà Mancuso. I risultati invece, non arriveranno mai. Nonostante gli investimenti, nonostante Sergio Di Corcia, Luca Lugnan, nonostante Diomansy Kamara – uno dei migliori talenti mai ammirati al Ceravolo – il Catanzaro non abbandonerà la C2 neanche con i Mancuso. Perchè? Qualcuno parlò di inesperienza. Si disse che il presidente aveva delegato troppo a collaboratori poco “capaci” (tanto per usare un eufemismo). Si disse anche che fu tutta colpa della voglia di grandeur di Salvatore e della natura poco conciliante e burbera di suo padre Giovanni. Chissà. Le storie di calcio – quelle di campo, intendiamoci – non presentano mai verità assolute. Avessimo battuto il Sora per 3-1, chissà cosa starei scrivendo arrivato a questo punto…
La piccola lezione inizia con un dato di fatto: la famiglia Mancuso è l’unica famiglia dell’imprenditoria catanzarese ad essersi impegnata direttamente nell’ affare di cuore più prezioso che ci sia per un vero catanzarese: il Catanzaro. Giovanni e Salvatore Mancuso hanno risposto all’uomo della strada, allo stesso uomo che non potrà mai permettersi un viaggio intercontinentale, un volo in business class o un’automobile di lusso. Quell’uomo che ha la sfortuna di vivere in una terra che sembra maledetta e che in cambio di duro lavoro e collaborazione fedele chiede solo un sogno a tinte giallorosse. Chiedete ora a Salvatore Mancuso se dopo quell’esperienza si senta più ricco (e non mi riferisco al denaro ovviamente): statene certi, vi risponderà di sì. Molte cose possono essere acquistate, quasi tutto… altre invece, possono solo essere conquistate. Quel ricordo di ragazzo per esempio, prezioso come poche altre cose al mondo.
Fabrizio Scarfone