Storia di chi parte. Questa volta “” vi conduce dentro un aeroporto. Nella testa di un uomo che a 70 anni ha deciso di emigrare insieme a sua moglie, per stare vicino ai figli da tempo al nord. Nessuna analisi sociologica, nelle parole che leggerete non c’è rabbia, nessuna voglia di rivalsa. Solo consapevolezza. La storia è vera, ma perché l’alchimia del racconto funzioni a dovere è necessario che sia stretto il solito patto tra chi scrive e chi legge. C’è anche una musica, appena più in basso, ho immaginato accompagnasse idealmente il nostro concittadino e le sue emozioni. Questa è la storia di Vittorio, e queste sono le sue parole, come se le avesse scritte lui.
(dedicato ad A.)
L’aereo per Torino è così pieno… E non si tratta neanche di uno di quei voli a basso costo che ti portano da una parte all’altra del Paese a 9 e 99 tasse incluse. I nostri voli, quelli dei calabresi intendo, sono sempre strapieni. Siamo emigranti dai tempi di mio nonno, forse anche da prima. Chissà se pure i voli degli irlandesi sono così; anche loro partirono a migliaia, per l’America innanzitutto, sopra navi che impiegavano più di un mese ad avvistare New York. Mi guardo intorno mentre mia moglie parla al telefono con uno dei nostri figli. In giro ci sono bagagli che neanche un sollevatore di pesi penserebbe di portare a mano. Penso a queste cose senza alcuna importanza perché il momento che sto vivendo è forse il più importante della mia vita. Per me funziona in questo modo, è autodifesa. I miei figli la chiamano proprio così: “autodifesa”.
Ho 70 anni, e questa è un po’ la mia fine del mondo. Tutto ciò che fino a poco fa chiamavo vita adesso se ne sta dietro le mie spalle. Lì, in attesa di essere rimpianto, maledetto o solamente dimenticato. No, non cerco lavoro in Piemonte; ho faticato per una vita intera a Catanzaro e sono orgoglioso di tutto ciò che ho fatto mentre i miei figli crescevano, studiavano e andavano via, lontano dalla casa che non sono mai riuscito a comprare.
Mia moglie fa dei versi strani con quel suo telefono attaccato all’orecchio e di certo tra un po’ toccherà anche a me: dall’altra parte ora deve esserci il nostro primo nipote, quello più grande. Ha appena cominciato a parlare. Ecco, per quanto stia lasciando qui, c’è molto di più ad aspettarmi là, dove sto andando. Ci sono i miei figli, i figli dei miei figli, una nuova casa. Tutto sommato credo che lì ci sia il futuro: l’impronta sulla terra che un giorno, quando me ne sarò andato, racconterà di me a chi vorrà sapere.
Non voglio perdere la mia famiglia per nulla al mondo. Un fine settimana e le feste comandate non mi bastavano più. Vedevo i miei nipoti crescere ogni volta, crescevano ad una velocità che era quasi difficile riconoscerli. Non voglio perdere i loro primi anni. Non voglio, Dio santo.
Mio figlio ha sempre avuto una gran paura di dimenticare le facce di Catanzaro. L’odore, le strade, i colori dei quartieri. Alcune delle sue domande al telefono le capisco soltanto adesso: “Papà, cosa dice la signora della macelleria?”. “E cchi ava e dira…”, rispondevo io prima di raccontargli una cosa qualsiasi che mi venisse in mente.
E poi mi chiedeva dei miei amici del club di modellismo, dell’edicolante lì sulla curva poco prima di arrivare a casa, delle buche di una certa strada in pieno centro… Ora sì che lo capisco. Era il modo più semplice che aveva trovato di combattere la sua battaglia con la “dimenticanza”.
Chissà se Ciccio sarà ancora sul Corso. Abbiamo passeggiato tanto di quel tempo che quando gli ho parlato della mia intenzione di partire, per poco non ha pensato di venire via anche lui. Mi mancherà il mio vecchio amico, e non basterà il telefono per tenerci in contatto. Quelli della nostra generazione parlano con i gesti, si spiegano con qualche lacrima che a fatica resiste dentro l’occhio arrossato.
Il silenzio di Ciccio, il suo voltarsi dall’altra parte per poi tenersi dal mio braccio e parlare dei vecchi tempi, quella sera dell’annuncio significavano una sola cosa: “ti voglio bene”. Quella stessa sera sono rientrato più tardi a casa. Ho salutato il mio piccolo mondo. Non gli altri amici o i mille conoscenti, ma le scale della Vallotta, il vecchio giardino comunale, i vichi stretti, il bar dove comprai il primo gelato alla ragazza che sarebbe diventata mia moglie.
Ho toccato la pietra fredda e centenaria della chiesa del Monte e se avessi avuto braccia abbastanza larghe, l’avrei stretta a me. Sono sceso giù per il Pianicello, sotto la luce calda dei lampioni e ho ascoltato la musica di un violoncello venire fuori come un miracolo da una piccola finestra. Poi uno sguardo al grande ponte illuminato, un record che sembra una promessa non ancora mantenuta. Se non fossi partito non avrei potuto salutare così bene tutto questo.
Ho incontrato il mio matto preferito, mi ha chiesto un euro e io gliel’ho dato. Lui, sorpreso, non ha pensato alla prossima moneta ma è rimasto lì con me. “Partirò per sempre” gli ho detto senza sapere neanche perchè. Ha scrollato le spalle. Abbiamo fumato insieme una sigaretta, e per una volta nessun tic ha deformato il suo viso ancora giovane. Ha puntato lo sguardo verso le luci del ponte, poi s’è voltato verso il muro del San Giovanni. Solo un sospiro, ha finito la sua sigaretta, mi ha dato un colpo sulla spalla, si è stretto nel cappotto lungo, sempre uguale negli anni, e se ne è andato…
Perchè non possiamo essere felici, a questa latitudine? Cosa ci manca? Perché, dopo essere andati in giro per il mondo, i figli non possono tornare nella città dei padri e aspirare alla felicità?
Vorrei parlare ai ricchi e ai potenti, da uomo a uomo. Vorrei convincerli che contribuire alla felicità collettiva è il progetto più grandioso a cui possano pensare. Ma sono soltanto un ingenuo, e lo crederà anche mia moglie mentre ora mi aiuta ad agganciare le cinture.
L’aereo sta per decollare. La pista scorre via veloce dal mio finestrino. È un po’ la fine del mondo…per me che del mondo ho sempre amato quella minuscola parte chiamata Catanzaro.
Fabrizio Scarfone