Pioveva a dirotto, quel giorno, era domenica, e noi eravamo diretti a Palma Campana, per l’ennesima trasferta nella terra del Vesuvio. Il Catanzaro affrontava il Sant’Anastasia, in campo neutro. Mattina strana, accoglienza pessima e poi, la notizia incredibile che gettò tutti nello sconforto: il camping Le Giare (nei pressi di Soverato) travolto da una cascata d’acqua venuta giù dalla montagna. Eravamo un centinaio circa, e da quel momento la partita non avrebbe avuto più alcuna importanza. Attendevamo solo il triplice fischio per andar via. Le notizie rimbalzavano impazzite, i primi radio-tg erano confusi, e non si riusciva a capire cosa stesse succedendo. Si parlava di un fiume, il Beltrame, che lo aveva spazzato via portando con se tende, case, bungalow, macchine, alberi, animali, persone. Ma si parlava anche di una grossa mareggiata, di una bufera di pioggia e vento. Un tourbillon di ipotesi da delirio. Sembrava un film di fantascienza ma era tutto vero. La tragedia correva sulla pelle di amici e conoscenti e la preoccupazione saliva minuto dopo minuto. Si sapeva che quel campeggio era sorto molti anni prima proprio sul letto di un fiume, il cui corso sembrava ormai asciutto, sicuro. Ma evidentemente non era così. La verità che venne fuori col passare dei giorni fu sconcertante. Inaccettabile.
L’arbitro fischiava l’inizio del match in un’atmosfera fuori da ogni programma. C’era molta preoccupazione sul volto di tutti. Non si conoscevano ancora l’entità dei danni, le dimensioni della catastrofe, la sua dinamica, il numero delle persone coinvolte e soprattutto dei dispersi. Era tutto così vago da far paura. Ci si guardava attoniti, sbigottiti, e si cercava di contattare familiari e amici che potessero dare un quadro più chiaro della situazione. In Calabria, intanto, continuava a piovere. Erano ormai diversi giorni che la pioggia veniva giù abbondante e continua. E i primi segnali di cedimento si erano già registrati sulle strade secondarie della fascia jonica della provincia e anche su quelle principali. Piccole frane avevano invaso la carreggiata della statale 106, la strada di Germaneto si era allagata in vari punti e alcuni costoni si erano staccati da varie pareti rocciose. Nulla di buono, dunque. Una sorta di tragedia annunciata, si dirà più tardi. E così fu.
Si decise allora di non esporre alcuno striscione e di rimanere sugli spalti in un rispettoso silenzio che sapeva già di lutto. Ricordo ancora il volto di un vecchio militante della Curva che annunciava la scomparsa di Vinicio Caliò, un ragazzo di Pontepiccolo (quartiere a nord di Catanzaro) dagli occhi buoni e molto amato per la sua grande generosità. Di lui non si seppe più nulla. Ricordo solo che la sera precedente, sabato, Vinicio decise di restare sul posto di lavoro, nel camping, rinunciando così alla trasferta in pullman con i tipsy, il gruppo con cui preferiva andare allo stadio. Quella scelta si rivelò fatale. Insieme a lui, quella sera, rimase il fratello Luca, a cui il destino riservò un epilogo diverso ma non meno doloroso. Erano vicini, quella notte, mano per la mano, quando il livello dell’acqua salì di colpo. Lottarono come leoni, spalla e spalla, contro la forza della natura, cercando protezione sugli alberi, sui bungalow, aggrappandosi a qualunque cosa, nuotando verso gli argini ma, purtroppo a Vinicio andò male e fu inghiottito per sempre sotto gli occhi del fratello dall’acqua mista a fango. A Luca, invece, il destino non tolse la vita ma il dolore lo segnò per sempre. Per alcune ore ingaggiò una lunga ed estenuante battaglia contro il mare in tempesta, la pioggia battente, il vento, il buio della notte, e dopo una lunga agonia un’onda lo catapultò sulla riva del Glauco (camping adiacente) dove una mano divina lo mise in salvo.
Era il 10 settembre 2000. A 10 anni di distanza, piove ancora in questi luoghi di mare e turismo sbiadito e poco è cambiato. Il camping non c’è più ma 13 innocenti, quasi tutti disabili, pagarono per tutti. Di Vinicio Caliò non si ebbe più alcuna traccia. Fu l’unico disperso tra le vittime, e non fu mai più ritrovato. Un dramma nel dramma che non troverà mai una spiegazione, una ragione, un momento di conforto in una famiglia che non si è mai rassegnata all’idea di non avere una tomba su cui piangere, che ha fatto di tutto per ritrovarlo, scavando perfino con le mani, notte e giorno, pregando. Quella tragedia suscitò l’indignazione collettiva e sollevò il problema della sicurezza idrogeologica sul territorio.
La politica diede il via ad una serie di provvedimenti restrittivi ed emanava, dopo qualche tempo, il decreto sulle fiumare. La giustizia, avviava un’inchiesta per punire i responsabili, mentre le ricerche proseguivano senza sosta. Furono giorni intensi e drammatici. Arrivarono giornalisti e televisioni di tutto il modo. I segni della catastrofe sul territorio erano devastanti. Era come l’apocalisse. Sulla spiaggia dell’intero golfo si erano depositati migliaia di tronchi d’alberi, carcasse d’animali, automobili, oggetti di vario tipo ma di Vinicio alcuna traccia. In primavera, arrivò una draga per sondare i fondali marini antistanti allo specchio d’acqua del camping, nella speranza di ritrovare il corpo. Niente, nessuna traccia.
Insieme ad Ivan, amico e collega, ci ritrovammo spesso su quella spiaggia, a riflettere attentamente su quanto accaduto, sulle cause, sulle responsabilità, ma soprattutto su quel giovane di cui non si ebbe più alcuna notizia. In serata, il pullman fece rientro in città, ci lasciò ai giardini di San Leonardo e solo il giorno dopo capimmo i termini di una tragedia che aveva colpito la nostra terra umiliata e malgovernata. Dove pochi comandano e molti subiscono. Esemplare una frase comparsa su un muro di Pietragrande: “10 settembre 2000: quando la natura si riprende i suoi spazi. Solidarietà alle vittime del camping Le Giare”.
Antonio Argentieri Piuma
(www.terramara.it)