Titolo: Un carcere nel pallone
Autore: Francesco Ceniti
Casa ed.: Laruffa
Prezzo: € 15,00
Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni.
Dostoevskij
Ci sono luoghi che assolvono compiti precisi. Le chiese, i cimiteri, gli ospedali, le carceri. Luoghi in grado di confondere ogni racconto individuale, trascinandolo in un altro chiaramente collettivo. Ed è proprio dentro uno di questi luoghi, appena fuori Milano, che prende forma il Free Opera calcio. Conviene scriverlo subito: non c’è posto per i santi in questa storia. Un carcere nel pallone non è un’agiografia. Nelle pagine di Ceniti ci sono uomini che scontano una pena comminata dai nostri tribunali: tutti hanno violato la legge, tutti sono autori di almeno un atto criminale, talvolta violento fino all’assassinio. Si tratta di persone che hanno seminato molto dolore, insieme a quanto solitamente viene seminato durante l’esistenza; e che la società, per autodifesa o risarcimento, ha deciso di rinchiudere dietro le sbarre.
Voi credete nella storia del “libero arbitrio”? Siete davvero convinti che un uomo, in ogni istante della sua vita, abbia la facoltà di scegliere le proprie azioni distinguendo tra il bene e il male? Io non lo sono. Questa idea non mi ha mai completamente persuaso. Dentro alcune vite, il confine tra un giro storto ed uno buono appare così sfocato e sottile che quasi neanche si percepisce. Prima di ogni altra cosa, certe storie ci lasciano la sensazione che ogni percorso sia governato da un’estrema precarietà: ciò che decidiamo di essere in un istante soltanto, rischia così di definirci per una vita intera. La debolezza, la violenza, l’errore di un unico momento, sono talvolta sufficienti a contenere tutta la nostra esistenza. Allora c’è chi sbaglia e fa i conti con il suo errore nel proprio letto, durante la notte, o magari in giornate intere, quando il rimorso sembra eccessivo per un uomo soltanto.
E c’è chi invece il conto lo paga dentro una stanza con sbarre d’acciaio applicate a porta e finestre. In prigione la vita mostra il suo brutto muso ad ogni ora, e se accade qualcosa che modifica la naturale inclinazione alla punizione di quel luogo, allora si può legittimamente pensare al miracolo.
Il Free Opera è davvero un miracolo laico, l’esecuzione di un progetto visionario iniziato con un pallone, qualche divisa neroverde e l’iscrizione di una squadra di detenuti a un campionato regolare. È da qui che comincia tutto: da qui nascono storie di uomini e calciatori, in un intreccio quasi letterario, a pochi metri dalla cella. C’è la storia di una cavalcata verso la promozione in seconda categoria, la storia di una crisi, quella di un esonero e di un salvezza conquistata all’ultima giornata del campionato successivo. A chi nel calcio vede una metafora della vita, la vicenda di questi uomini che si consuma tutta nell’arco di un biennio (2003-2005) non deve sfuggire. È l’occasione migliore che abbiamo per capire che non è mai soltanto un pallone che rotola. E non è mai soltanto colpa.
Oggi sono un po’ meno convinto di aver mandato tutto a puttane. Questi scarpini vanno che è una meraviglia. Il campo dentro l’istituto è in terra battuta, ha il fondo duro come il cemento delle strade. Ma fosse anche San Siro, non correrei di più, non saprei dare altro alla mia squadra. Oggi il fine pena mi tormenta meno. È strano: il primo giorno ringrazi il cielo di sapere quando uscirai, pensi che quella data certa sia la luce da seguire in fondo al tunnel.
Viene da credere che qualche anno di detenzione sia quasi uno scherzo. E invece presto, dannatamente presto, quei numeri in fila diventano un tumore che ti mangia da dentro. Un male col ticchettio dei vecchi orologi. E allora devi portare la mente alle cose concrete, alle scadenze più prossime: al pasto della sera per esempio, agli esercizi in cortile, al libro da leggere.
Non sono mai stato innocente, né penso di meritare un destino diverso. Ho sbagliato, ho pagato. Sto pagando ancora. Ma non voglio essere ricordato soltanto per i giorni rinchiuso qua dentro. Non sono uno spacciatore, adesso. Se chi mi sta davanti vuole fermare la mia corsa verso la gloria, lo evito usando il mio dribbling. Per qualcuno che mi stende c’è sempre qualcun altro che mi aiuta a rialzarmi. Se arrivo sul fondo, allora cerco lo sguardo di un compagno appostato nell’area. Niente disperazione, stare sul fondo ha i suoi vantaggi dentro un campo di calcio. Vedo mia moglie in tribuna, la saluto mandandole un bacio; forse si è finalmente convinta che non tutto ancora è perduto. Penso agli allenamenti sotto la pioggia, le ripetute senza fiato, così, infilati nel gelo. Penso agli sguardi degli altri: a quelli degli avversari, del direttore, del secondino, degli altri detenuti . Oggi corro per mia figlia, anche se non ho un parastinco con la sua foto impressa da baciare. Corro perché abbia meno vergogna di suo padre, perché sappia riconoscermi in un posto diverso all’aperto. Quando sarà grande.
Fabrizio Scarfone