Phonemedia, Omnia Network. Sono i campi di battaglia, le trincee che si sgretolano di un modello di lavoro, quello dei call center, che da simbolo dell’esasperazione dello sfruttamento, unico sbocco per disoccupati e «bamboccioni» in fuga forzata dalla famiglia, aveva anche saputo alzare la testa e cercare di diventare «lavoro vero». Sotto i colpi della crisi, dei cambi di proprietà, degli appalti al ribasso spinto, ora queste due aziende si sono dissolte, lasciando a terra oltre 10 mila persone. A Trino Vercellese, Novara, Ivrea. A Palermo, Catanzaro, Bari, Napoli, Milano, Cagliari. Stipendi non pagati da mesi, sedi chiuse per sfratto, dipendenti nell’assurda situazione di non potersi nemmeno licenziare, perché la mancata retribuzione non è ritenuta dall’impresa ipotesi di «giusta causa». Oppure, perché non possono mostrare a un giudice il cedolino dello stipendio.
Sono in atto vertenze in tutt’Italia. Proteste, occupazioni, manifestazioni. Per Phonemedia i sindacati hanno presentato istanza d’insolvenza al tribunale di Novara, e richiesta di commissariamento. Per Omnia Network, a Milano, c’è un’istanza di fallimento avanzata da alcuni creditori. Le due aziende hanno richiesto, nelle ultime ore, la cassa integrazione. In deroga, a rotazione. Ma i sindacati non ci stanno. «Siamo arrivati a un punto di non ritorno per i call center», dice Emilio Miceli, segretario generale di Slc-Cgil. «O si punta a trasformarlo davvero in un’industria, oppure si precipita nell’abisso». Perché Phonemedia e Omnia Network sono soltanto i casi più macroscopici. Nell’ombra, navigano gli altri. «Cooperative non riconosciute, sottoscala dove si continua a sottopagare gli operatori, se va bene con contratti a progetto. Ma in alcuni casi non li pagano proprio. Anzi, addirittura li derubano: non versano i contributi all’Inps, non effettuano i versamenti per l’assistenza sanitaria, s’impossessano del quinto dello stipendio» dice Renato Rabellino, segretario di Slc-Cgil Piemonte.
Una giungla. Che travolge tutto e tutti, anche quelle aziende – perché ci sono anche queste – virtuose. Che assumono con contratti regolari, che offrono servizi di alto livello. Che hanno per committenti multinazionali, grandi aziende, banche. Su cinquanta-sessanta marchi presenti sul mercato italiano, per un totale di almeno 50 mila addetti calcolano i sindacati, quelli virtuosi sono una quindicina. Tra questi, un leader da 180 milioni di fatturato, due o tre gruppi da 50 milioni, altrettanti sui 30 milioni, poi i più piccoli, destinati a uscire da un mercato sempre più difficile. «Abbiamo tre ordini di problemi da risolvere» dice ancora Miceli. «C’è quello dei riders, gli imprenditori che si sono gettati nel business in tempi più floridi, mettendo su call center per guadagnare in tempi brevi e a scopi speculativi. Non hanno puntato sulla qualità, e al momento della contrazione del mercato sono saltati. Non prima di aver rastrellato tutto il denaro possibile ed essersi lasciati dietro le spalle migliaia di posti di lavoro in dissoluzione».
Poi, c’è la crisi del settore. «Cala la domanda, calano gli ordini, cala il valore delle commesse». Gli appalti sono tirati al ribasso, le grandi concessionarie spingono i fornitori a puntare sull’estero, a delocalizzare per abbassare i costi. «Su questo fronte è meno peggio che in altri comparti, perché l’italiano non è parlato ovunque, ed è ancora un valore aggiunto» spiega Miceli. «Sì, però anche i gruppi italiani, come ad esempio Telecom, dovrebbero rifiutarsi di veder finire i call center in Tunisia», denuncia Rabellino.
Infine, la questione della stabilizzazione dei posti di lavoro. Nel 2006 la «circolare Damiano» ha stabilito anche per le Tlc, anche per i call center (inbound), il divieto dei contratti a progetto. Lo Stato ha introdotto incentivi, sgravi contributivi per le aziende che trasformavano queste posizioni in contratti a tempo indeterminato. Sgravi pieni al Sud. Si spiega così perché sono sorti come funghi call center nel Mezzogiorno. «Abbiamo stabilizzato 25 mila posizioni», dice Miceli. Ma adesso la festa è finita. «Gli incentivi sono in scadenza». Che succederà, se non saranno prorogati, a Catanzaro, Bari, Cagliari, Palermo? «Ci sono città che sono bombe sociali pronte a scoppiare. E non solo nel Sud. A Ivrea, ad esempio, che rischia di diventare una Sheffield» avverte Miceli.
Ecco il punto di non ritorno. Il bivio. I sindacati hanno convinto il governo ad aprire un «tavolo dei call center». Il 12 febbraio, la prima riunione presso il ministero dello Sviluppo economico. Il 22 la seconda. «Chiediamo una proroga degli sgravi contribuitivi», dice Miceli. I riders finirebbero espulsi dal mercato, le aziende virtuose avrebbero interesse a farsi carico dei «cocci» lasciati da questi ultimi, altri lavoratori senza futuro potrebbero, per la prima volta, ambire ad un contratto serio. A un lavoro vero.
http://www.lastampa.it