Milano. Scomparsa nel nulla mentre si trovava a Milano per prendere parte a un processo in cui era coinvolta. Forse uccisa per vendetta per quelle sue dichiarazioni sulle cosche della ‘Ndrangheta di Petilia Policastro, che non erano bastate per farle ottenere l’inserimento definitivo nel programma di protezione.
Di Lea Garofalo, 36 anni, si sono perse le tracce due mesi fa, quando non si è presentata ad un appuntamento fissato con la figlia alla stazione ferroviaria del capoluogo lombardo, dove avrebbe dovuto prendere un treno per rientrare in Calabria. E il timore degli investigatori è che sia stata rapita e assassinata e che il suo cadavere sia stato fatto sparire dagli uomini delle ‘ndrine che aveva accusato di fronte alla Dda di Catanzaro.
Le indagini sulla vicenda sono ora in mano alla procura milanese, rappresentata dai pm Letizia Mannella e Massimo Meroni, che indagano per “sequestro di persona”. Mentre a Campobasso, dove la donna si era trasferita con la figlia dopo aver deciso di rompere con il passato, i magistrati hanno già arrestato, il primo febbraio, il suo ex convivente Carlo Cosco. Insieme a Massimo Sabatino (l’ordinanza gli è stata notificata in carcere), accusato di essere penetrato nell’abitazione della Garofalo nel mese di maggio, per ordine dello stesso Cosco, e con la missione di uccidere la donna che sarebbe andata a buon fine se la vittima predestinata non avesse avuto una pronta reazione.
“È possibile affermare che Cosco avesse un interesse concreto sia a vendicarsi di quanto la Garofalo aveva già detto, sia ad evitare che potesse riferire altro”, aveva scritto il gip di Campobasso Teresina Pepe nell’ordinanza di custodia cautelare. In riferimento alle tante dichiarazioni della pentita che avrebbe raccontato tutto quello che sapeva sulla faida tra le ‘drine Garofalo e Mirabelli, su un traffico di droga nonché sugli omicidi del fratello Floriano (capo di una delle cosche di Pagliarelle e ucciso in un agguato nel 2005) e di Antonio Comberiati (assassinato a Milano dieci anni prima).
Le sue dichiarazioni, iniziate proprio dopo la morte del fratello, erano state ritenute utili alle indagini e per questo la donna era stata sottoposta insieme alla figlia al programma di protezione provvisorio. Poi quando la Dda catanzarese aveva chiesto l’inserimento definitivo la Commissione centrale del Ministero dell’Interno si era rifiutata di concederlo. Perché le sue rivelazioni, si legge, “non avevano avuto, fino a quel momento, autonomo sbocco processuale e gli elementi informativi raccolti erano insufficienti circa l’attendibilità, l’importanza e la rilevanza del contributo offerto”.
La stessa Commissione aveva inoltre negato “la rilevanza dell’uccisione di un fratello dell’appellante, ritenendola dovuta a fatti estranei alla sua collaborazione”. E la donna, lasciata sola come denuncia oggi la figlia, aveva presentato infiniti ricorsi fino a che una sentenza del Consiglio di Stato avrebbe confermato la situazione di grave pericolo in cui versava.
Anche a fronte di questo provvedimento nessuno sarebbe però intervenuto e forse la ‘Ndrangheta è arrivata prima.