La tecnica operatoria era stata sperimentata al S. Anna nel corso del 2009. Oggi, essa è parte integrante delle prestazioni offerte dall’ospedale e lo pone ancora una volta all’avanguardia tra i centri di alta specialità del cuore in Italia.
Stiamo parlando della cardiochirurgia mini invasiva, che – spiega il dottor Alfonso Agnino – “non sostituirà integralmente quella tradizionale ma limiterà progressivamente quest’ultima a un numero sempre più circoscritto di pazienti”.
Dall’inizio dell’anno, sono sei gli interventi realizzati con approccio mini invasivo. La metodica consente di effettuare un’operazione al cuore senza aprire lo sterno ma attraverso un’incisione di pochi centimetri, praticata all’altezza del terzo o quarto spazio intercostale; quindi con un trauma chirurgico ridotto al minimo.
I vantaggi di tale metodica sono molteplici. Sono sicuramente di tipo estetico (l’apertura dello sterno, infatti, comporta successivamente una cicatrice importante) ma sono soprattutto di ordine clinico e funzionale. “Basti pensare – spiega Agnino – che il paziente si può mettere seduto già dopo 12/14 ore dall’intervento; nell’arco delle 24 ore può lasciare la terapia intensiva e camminare; nel giro di 5/6 giorni, infine, può uscire dall’ospedale e fare ritorno a casa. In più, con la chirurgia mini invasiva tende a ridursi la necessità della riabilitazione cardiorespiratoria, proprio perché il trauma chirurgico è minimo. Non aprire lo sterno, inoltre, significa limitare il rischio di complicanze respiratorie post-operatorie, perché non viene alterata la meccanica ventilatoria. La tecnica mini invasiva, infine, permette di limitare in maniera importante il normale sanguinamento chirurgico, riducendo quindi la necessità di eventuali trasfusioni. Una tecnica, sostanzialmente, che non solo fa bene al paziente ma anche al sistema nostro sanitario con un significativo contenimento dei costi”.
La chirurgia mini invasiva è particolarmente indicata nella cura dei problemi valvolari che possono essere curati o con la sostituzione della valvola o con la sua ricostruzione. La tecnica, inoltre, è indicata anche nei reinterventi. Sui pazienti che, ad esempio, hanno già subito un intervento al cuore e che per una qualsiasi ragione debbono essere nuovamente operati, la chirurgia mini invasiva consente di evitare il rischio di ledere il cuore o ciò che è stato fatto nell’intervento o negli interventi precedenti.
Dal punto di vista dell’approccio chirurgico, il cambiamento rispetto al metodo tradizionale è significativo ma anche suggestivo. Nella chirurgia mini invasiva, non c’è mai una visione diretta del cuore; diversa è la posizione del chirurgo, che utilizza gli strumenti muovendoli con la sola punta delle dita e con polso e avambraccio fermi. “Il cambiamento mentale per il chirurgo è totale così come quello fisico – puntualizza Agnino. I gesti che egli compie sul cuore, all’interno del torace, può osservarli solo attraverso un monitor e non più dal vivo”.
La chirurgia mini invasiva non ha particolari controindicazioni. Tutto dipende dalla conformazione del paziente e dalle condizioni del cuore: se questo è dilatato o se si è in presenza di aderenze a livello polmonare (pleurite destra o trattamenti radioterapici a destra), allora l’approccio mini invasivo non sarà possibile. Tutto sommato, però, le controindicazioni restano assai limitate. Neppure l’età costituisce un problema anzi, più si è in avanti negli anni più la chirurgia mini invasiva è consigliabile. Questo perché, mentre per i pazienti giovani può esservi certamente una motivazione di tipo estetico (si pensi alle giovani donne e a quello che può significare una piccola incisione sotto il seno rispetto alla cicatrice conseguente all’apertura dello sterno), negli adulti e negli anziani scattano quei benefici medici del post-operatorio, che rendono particolarmente indicata la metodica mini invasiva.
“In ogni caso però – conclude Agnino – sarà sempre l’equipe medica (cardiochirurgo e anestesista) a decidere quale tipo di intervento eseguire, tradizionale o mini invasivo, in ragione della patologia da curare, del quadro clinico del paziente e delle sue condizioni generali”.
Marcello Barillà