La vicenda delle navi dei veleni al largo delle coste calabresi è un calderone, un grande magma da cui può essere colpita molta gente. Magari estranea alla faccenda, che, senza conoscere a fondo le dinamiche che hanno provocato tutto ciò, si ritrova con un figlio ammalato di cancro. Questi fatti sembrano perciò avere almeno una doppia dimensione: una pubblica, che interessa chi ne parla, con maggiore o minore competenza, sui giornali, l’operato delle forze sane della magistratura e della sicurezza. C’è poi la zona torbida di chi ha la coscienza sporca, di chi fa parte del muro di gomma e contribuisce anche al suo stesso male. È una dimensione parallela alla prima e dai tratti diabolici. Non teme infatti di ledere se stessa. Prescinde dall’operato della singola cellula, come una massa cancerosa. Sembra assumere i contorni del cannibalismo.
Come si può giustificare diversamente una serie di operazioni illegali ma incontrollabili nel mar Mediterraneo, che scaricano sulla collettività un male che non si è riusciti a contrastare con mezzi legali? La vicenda ha contorni molto estesi, transnazionali. La preoccupazione è d’obbligo, ma deve poi cedere il passo ad un’azione sociale risanatrice, per quanto potenzialmente velleitaria. Bisogna che di questi fatti si parli e che non ci sia paura ad agire. C’è a rischio un equilibrio ambientale e, se non si intervenisse con forza, comunque la Calabria continuerebbe sulla strada che rischia di isolarla sempre più dal resto d’Italia. Se questa vicenda non sarà affrontata con la forza di azioni di cooperazione rafforzata, concertate a Bruxelles, per la Calabria ci sono speranze che si affievoliscono. Luoghi turistici incantevoli sono corrosi dalla mano dell’uomo, in modo irreversibile. Ma le responsabilità di un peggioramento della qualità della vita ulteriore, in una terra che di problemi già ne ha tanti, sarebbero di tutti coloro che, pur potendo intervenire, non lo hanno fatto.
Si può effettuare un confronto tra quello che ci insegna questa faccenda e quanto sta succedendo in Sicilia ed è successo in Abruzzo. La negligenza sui controlli, unita in alcuni casi ad una chiara volontà criminale e collusa, mette a repentaglio le vite di tutti i cittadini che si bagnano nelle acque calabresi. Una volta sono le case costruite con l’argilla, un’altra è il muro di gomma. Tutto ciò fa calare ogni giorno di più non solo l’appetibilità di alcuni luoghi, ma la reputazione di un Paese. Le forze dell’antimafia dovrebbero saperlo. Le forze dell’ordine pure. La magistratura condizionata dovrebbe avere un sussulto morale e c’è poi la grande necessità di un coordinamento tra le persone coraggiose che pensano di poter rispondere con una iniezione di trasparenza e di risanamento della vita pubblica all’emergenza di un cancro. Mettiamo insieme i tanti fatti che si verificano e il quadro della situazione assume contorni imbarazzanti.
Se si fa lo sforzo di considerare tutto ciò in una dimensione non solo localistica, ma generale, possiamo vedere il nostro Paese, anzi il nostro Pianeta come un corpo su cui stanno aumentando degli strani nei. La persona consapevole di una mutazione di una certa portata e che potrebbe generare sofferenze e dolori cercherebbe di curarsi al più presto. Perché invece il dibattito su alcuni mali che affliggono la nostra Terra dà l’idea che siamo circondati da una cappa tossica, oscura, da cui faremo fatica a uscire? Si può fare qualcosa in più perché tutto ciò non succeda? Le persone cadute ingiustamente per mano criminale, oppure perché vittime di un terremoto verificatosi in un’area su cui si era costruito illegalmente, o ancora ammalatesi di cancro per la tossicità delle scorie dovrebbero stimolare le coscienze di molti. Lo ripetiamo, la collettività può anche essere sana, ma le cellule cancerogene, se non contrastate, rischiano di invadere tutto il corpo.
ASSOCIAZIONE UNIVERSITARIA “ULIXES”
CENTRO STUDI REGIONALE “GIUSEPPE LAZZATI”
Il veleno che uccide la speranza, in Italia e nel mondo
Comunicato dell’Associazione Ulixes e del Centro Studi Regionale “Giuseppe Lazzati