Al Sig. Presidente della Repubblica
Piazza del Quirinale
ROMA
Sig. Presidente,
Le scrivo questa missiva soprattutto nella sua qualità di Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura.
E’ una lettera che non avrei mai voluto scrivere. E’ uno scritto che evidenzia quanto sia grave e serio lo stato di salute democratico della nostra amata Italia.
E’ una lettera con la quale Le comunico, formalmente, le mie dimissioni dall’ordine giudiziario.
Lei non può nemmeno lontanamente immaginare quanto dolorosa sia per me tale decisione.
Nonostante l’Italia è una Repubblica che si fonda sul lavoro – come recita l’art. 1 della Costituzione – non sono molti quelli che possono fare il lavoro che hanno sognato; tanti il lavoro non lo hanno, molti sono precari, altri hanno dovuto piegare la schiena al potente di turno per ottenere un posto per vivere, altri vengono licenziati come scarti sociali, tanti altri ancora sono cassintegrati. Ebbene io ho avuto la fortuna di fare il magistrato, il mestiere che ho sognato dal momento in cui mi sono iscritto all’Università di Giurisprudenza Federico II di Napoli, luogo storico della cultura giuridica. La magistratura è nel mio sangue, provengo da quattro generazioni di magistrati. Ho respirato l’aria di questo nobile e difficile mestiere sin da bambino. Uno dei giorni più belli della mia vita è stato quando ho superato il concorso per uditore giudiziario. Una gioia immensa che mai avrei potuto pensare potesse avere un epilogo così buio. E’ cominciata con passione, idealità, entusiasmo, ma anche umiltà ed equilibrio, quella che è stata anche la missione della mia vita professionale – come in modo dispregiativo disse il rappresentante della Procura Generale della Cassazione durante quel simulacro di processo disciplinare che fu imbastito nei miei confronti -: l’esercizio delle funzioni giudiziarie in ossequio alla Costituzione Repubblicana per tentare di dare una risposta concreta alla richiesta di giustizia che proviene dai cittadini in nome dei quali viene amministrata e che – contrariamente a quanto reputa la casta politica e dei poteri forti – sono tutti uguali davanti alla legge. Del resto Lei, sig. Presidente, che è il custode della Costituzione ben conosce tali inviolabili principi costituzionali e mi perdoni, pertanto, se li ricordo a me stesso.
I modelli ai quali mi sono ispirato sin dall’ingresso in magistratura – oltre a mio padre, il cui esempio è scolpito per sempre nel mio cuore e nella mia mente – sono stati magistrati quali Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ed è nella loro memoria che il mio faro sarà l’agenda rossa di Paolo portata con dignità immensa dal fratello Salvatore. Ho sempre pensato che chi ha il privilegio di poter fare quello che sogna nella vita deve dare il massimo per il bene pubblico e l’interesse collettivo anche a costo della vita. Ed è per questo che ho deciso di prendere le funzioni di Pubblico Ministero in una sede di trincea, di prima linea nel contrasto al crimine organizzato, la Calabria. Quella terra dalla quale i magistrati forestieri in genere scappano dopo aver svolto il periodo previsto dalla legge e dove invece io avevo deciso (ingenuamente) di restare.
Ho dedicato a questo lavoro gli anni migliori della mia vita, dai 25 ai 40 anni, lavorando mai meno di dodici ore la giorno, spesso di notte, di domenica, le ferie un lusso al quale dover spesso rinunciare. Sacrifici enormi, personali e familiari, ma nessun rimpianto, rifarei tutto, con le stesse energie ed il medesimo entusiasmo.
In questi anni difficili ma entusiasmanti, in quanto numerosi sono stati i risultati raggiunti, ho avuto al mio fianco diversi colleghi magistrati, significativi settori della polizia giudiziaria, validi collaboratori. Ho cercato sempre di fare un lavoro di squadra, di operare in pool.
Parallelamente al consolidarsi dell’azione investigativa svolta si rafforzavano le attività di ostacolo che puntavano al mio isolamento, alla delegittimazione del lavoro, alle più disparate strumentalizzazioni. Intimidazioni, pressioni, minacce, ostacoli, interferenze. Attività che, talvolta, provenivano dall’esterno delle Istituzioni, il più delle volte dall’interno: dalla politica, dai poteri forti, dall’interno della magistratura. Sig. Presidente a Lei, del resto, non sfuggirà, quale Presidente del CSM, che l’indipendenza della magistratura può essere minata non solo dall’esterno dell’ordine giudiziario, ma anche dall’interno: ostacoli nel lavoro quotidiano da parte di dirigenti e magistrati, revoche ed avocazioni illegali, tecniche per impedire un celere ed efficace svolgimento delle funzioni.
Ho svolto indagini preliminari nei settori più disparati, ma quando si trattava di reati contro la pubblica amministrazione divenivo un cattivo magistrato.
Posso dire, con orgoglio, che il lavoro procedeva in modo assolutamente proficuo, in tutte le direzioni come impone il precetto costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale, corollario del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge; la polizia giudiziaria espletava le funzioni con sacrifici enormi perché percepiva che risultati straordinari venivano raggiunti, le persone testimoniavano e davano il loro contributo. Lo Stato c’era ed era visibile in un territorio martoriato dal malaffare. Le inchieste venivano portate avanti tutte, non venivano insabbiate quelle contro i cd. poteri forti, come troppe volte capitava e capita. Questo modo di lavorare il popolo calabrese – che piaccia o non piaccia al sistema castale – lo ha capito, mostrando sostegno e solidarietà. Non è poco, sig. Presidente, in una Regione in cui opera una delle organizzazioni mafiose più potenti del mondo. E che lo Stato funzionasse lo ha compreso bene anche la criminalità organizzata. Tanto è vero che si sono raffinate le nuove tecniche di neutralizzazione dei servitori dello Stato che si ostinano ad applicare la Costituzione Repubblicana.
Non so se Ella, Sig. Presidente, condivide la mia analisi, a me pare che dopo la stagione delle stragi di mafia culminate nel 1992 con gli attentati di Capaci e di via D’Amelio e dopo la strategia della tensione delle bombe a grappolo in punti nevralgici del Paese, le mafie si sono cominciate ad istituzionalizzare. Hanno deciso di penetrare nelle radici e diffusamente nella Cosa Pubblica, nell’economia, nella finanza. Le mafie sono divenute il cancro della nostra democrazia. Controllano parte significativa del prodotto interno lordo del nostro paese, hanno loro rappresentanti nella politica, sono penetrate nelle Istituzioni a tutti i livelli ed in tutte le sue ramificazioni territoriali. Magistratura e forze dell’ordine nemmeno sono rimaste impermeabili. Una vera e propria emergenza democratica. Da sconfiggere in Italia e in Europa.
Gli ostacoli più micidiali all’attività dei servitori dello Stato sono i mafiosi di Stato: quelli che indossano abiti istituzionali ma piegano le loro funzioni ad interessi personali, di gruppi, di comitati d’affari, di centri di potere occulto.
Non mi dilungo perché credo che al Presidente della Repubblica tutto questo dovrebbe essere noto.
Ebbene, oggi, Sig. Presidente, non è più necessario uccidere i servitori dello Stato, ci sarebbe il martirio, i funerali di Stato dove magari accade che il popolo prende a sputi e calci i simulacri del regime, può accadere che l’Europa ci metta sotto tutela, non vale la pena rischiare, non serve. Si può raggiungere lo stesso risultato con modalità diverse: al posto della violenza fisica si utilizza quella morale, la violenza della carta da bollo, l’uso illegale del diritto o il diritto illegittimo, le campagne diffamatorie della propaganda di regime, si scelga la formula che più piace.
Che ci vuole del resto, sig. Presidente, per trasferire un magistrato scomodo, un poliziotto troppo curioso, un carabiniere zelante, un finanziere scrupoloso, un prete coraggioso, un funzionario che non piega la schiena, imbavagliare un giornalista che racconta i fatti. E’ tutto molto semplice, quasi banale.
Per allontanare i servitori dello Stato o del bene pubblico li devi prima isolare, delegittimare, diffamare, calunniare. A questo servono i politici collusi, la stampa di regime al servizio dei poteri forti, i magistrati proni al potere, gli apparati deviati dello Stato.
La solitudine è una caratteristica del magistrato, l’isolamento è un pericolo. Ebbene, in Calabria mentre le persone rispondevano positivamente all’azione di servitori dello Stato vincendo timori e paure di ritorsioni, spezzando omertà e connivenze, pezzi significativi delle Istituzioni contrastavano le attività di magistrati e forze dell’ordine, con ogni mezzo.
Quello che si andava realizzando nel corso degli anni in Calabria sul piano investigativo non era noto in quanto la cappa esercitata anche dalla forza delle massonerie deviate impediva che si potesse conoscere quel che accadeva. Il resto del Paese non doveva sapere. Si praticava la scomparsa dei fatti. Quando le vicende sono cominciate ad uscire dal territorio calabrese l’attività di contrasto è divenuta ancor più violenta e repentina, invece che arrivare gli alleati è giunto il supporto alla borghesia mafiosa che soffoca la vita civile calabrese. E’ chiaro. L’azione dello Stato produceva risultati in termini di indagini, di fiducia nelle Istituzioni, di disvelamento dei legami tra mafia di tipo tradizionale e criminalità organizzata dei colletti bianchi, comprensione del come politici collusi, (im)prenditori criminali e pezzi deviati delle Istituzioni saccheggiano le immani risorse pubbliche a danno della stragrande maggioranza della popolazione, di come il mercato del lavoro è piegato ad interessi illeciti e che “l’appartenenza” consente di ottenere finanziamenti e lavoro, di come si controlla il voto e, quindi, si inquina la democrazia.
Sono cose che non si possono far conoscere, sig Presidente, altrimenti il popolo prende coscienza, comprende che si fanno affari sulla pelle dei più deboli, si dissente e magari si attiva quella democrazia partecipativa e quella lotta al malaffare che fa paura al sistema di potere che opprime la nostra democrazia. Una presa di conoscenza e coscienza che poteva scatenare una sana e pacifica ribellione sociale.
Ebbene, sig. Presidente, Lei dovrebbe conoscere – sempre quale Presidente del CSM – le attività che sono state messe in atto ai miei danni, spero abbia preso le dovute informazioni su quello che accadeva in Calabria, quello che è stato praticato per fermare il lavoro che stavo svolgendo in ossequio alla legge ed alla Costituzione. Avrà potuto notare che è stata messa in atto un’attività di indebito esercizio di funzioni istituzionali al solo fine di bloccare indagini che avrebbero potuto ricostruire fatti gravissimi commessi in Calabria (e non solo) da politici, di destra, di sinistra e di centro, da imprenditori, magistrati, esponenti dei servizi segreti e delle forze dell’ordine, professionisti. Ma questo non è tollerabile in un Paese ad alta densità mafiosa istituzionale! Come potevano un pugno di servitori dello Stato pensare di esercitare il loro mandato onestamente applicando la Costituzione!
Sig. Presidente Lei, come altri esponenti delle Istituzioni, è venuto in Calabria, ha esortato i cittadini a ribellarsi al crimine organizzato e ad avere fiducia nelle Istituzioni.
Perché, sig. Presidente, non è stato vicino ai servitori dello Stato che si sono imbattuti nel cancro della democrazia, nelle collusioni più terribili tra criminalità organizzata e poteri deviati? Non ho mai colto alcun segnale da parte Sua in questa direzione, anzi. Eppure, anche pubblicamente, avevo sperato in un Suo intervento: ero ancora nella fase della ingenuità istituzionale. Pensavo alla neutralità dei poteri, poi ho capito pagando il prezzo più amaro, in un’ingiustizia senza fine.
Sono stato ostacolato, mi sono state sottratte le indagini, mi hanno trasferito, mi hanno punito solo perché ho fatto il mio dovere come poi ha sancito l’autorità giudiziaria competente. L’obiettivo, intanto, è stato raggiunto, anche se una parte del Paese aveva ed ha capito quello che è accaduto, ha compreso la posta in gioco e me lo ha testimoniato con un affetto che Lei non può nemmeno immaginare (la mia infinita risorsa aurea): l’assalto dei poteri forti che non accettano che si possa ricostruire la verità sulle scandalose deviazioni del potere.
Ho denunciato fatti gravissimi all’autorità giudiziaria competente, la Procura della Repubblica di Salerno: me lo imponeva la legge e prima ancora la mia coscienza.
Magistrati onesti e coraggiosi hanno avuto il solo torto di accertare la verità, ma questa era sgradita al potere ed allora anche loro dovevano pagare, in modo ancora più duro e salato (la lezione non era stata sufficiente). La logica di regime del colpirne uno per educarne cento utilizzata nel mio caso non era ancora idonea a scalfire quella parte della magistratura che è l’orgoglio del nostro Paese. Ci voleva un segnale forte, che provenisse dalle Istituzioni, magistratura compresa: la ragion di Stato (ma quale Stato sig. Presidente?) non può tollerare che magistrati liberi, autonomi ed indipendenti possano ricostruire fatti gravissimi che mettano in pericolo il sistema criminale di potere in cui si regge, in parte, il nostro Paese.
Quando la Procura della Repubblica di Salerno – un pool di magistrati, non uno antropologicamente diverso, come è stato nel mio caso – ha adottato provvedimenti non graditi affatto a quel potere che aveva agito per distruggermi, ecco che il circuito mediatico-istituzionale, ai più alti livelli, fa filtrare – come nei più inqualificabili regimi autoritari – il messaggio perverso che è in atto una guerra tra Procure.
Una menzogna di regime: nessuna guerra vi è stata. Era solo, come capirebbe anche mio figlio, il piccolo di 5 anni, una Procura che indagava ai sensi dell’art. 11 c.p.p. su magistrati di altro distretto e questi, per ostacolare le indagini, hanno, a loro volta, indagato i primi e me quale istigatore. Un mostro giuridico. Un’aberrazione di un sistema che si difendeva dalla ricerca della verità tentando di utilizzare lo schermo di una legalità, in realtà, solo apparente.
Ebbene questa menzogna è servita per buttare fuori dalle indagini (e dalla funzioni di PM) tre magistrati ed uno di questi lasciarlo, addirittura, senza lavoro. Il messaggio doveva essere chiaro ed inequivocabile: non accada più! Basta! Capito!?
Ebbene, sig. Presidente, io credo che Lei abbia errato in questa vicenda. Lo affermo con enorme rispetto per l’Istituzione che Lei rappresenta, ma con altrettanta sincerità e determinazione. Ricordo bene il Suo intervento – devo dire senza precedenti – dopo che furono eseguite le perquisizioni da parte dei magistrati di Salerno. Rimasi amareggiato, ma non meravigliato.
Sig. Presidente, questo sistema malato mi ha di fatto strappato la toga che ho indossato con amore profondo.
Il fatto che non mi è stato più consentito di esercitare questo mestiere stupendo mi ha spinto ad accettare un’avventura politica straordinaria.
Sig. Presidente, un’azione inaccettabile quale quella condotta contro di me può strapparmi le amate funzioni, può portarmi via dal sogno professionale della mia vita, può allontanarmi dal mio lavoro, ma non piega la mia dignità, non lede la mia schiena dritta, non scalfisce il mio entusiasmo, non corrode la passione e la volontà di fare qualcosa di utile per il mio Paese.
Nel mio animo, nel cuore e nella mente, sarò sempre magistrato.
In Politica, quella con la P maiuscola, porterò gli stessi ideali con cui ho fatto il magistrato, mi accompagnerà la medesima sete di giustizia, i miei ideali e valori di sempre (dai tempi della scuola) saranno il faro del percorso che ho intrapreso.
Darò il mio contributo affinché i diritti e la giustizia possano affermarsi sempre di più e chi soffre possa utilizzarmi come strumento per far sentire la sua voce.
Ed è per questo che, con grande serenità, mi dimetto dall’ordine giudiziario – dal lavoro più bello che avrei potuto fare, nella consapevolezza che non mi sarebbe più consentito esercitarlo dopo il mandato politico – con l’ulteriore impegno che cercherò di fare in modo che quello che è successo a me non accada più a nessuno e che tanti giovani intraprendano questo mestiere non con la mentalità burocratica e conformistica – magistralmente descritta da Piero Calamandrei nel secolo scorso –, come vorrebbe il sistema di potere consolidato, ma con la Costituzione della Repubblica nel cuore e nella mente.
Roma, 28 settembre 2009