Serie B…evute per Triestina – Catanzaro

In viaggio per Trieste con Nicolò Ditta

Trieste e Trapani. Non fosse che per la “T”, non ci potrebbero essere due città più distanti in Italia.

Dall’estremo nord all’estremo sud, l’una all’estremo est, l’altra all’estremo ovest, l’una asburgica e mitteleuropea, l’altra mediterranea. L’una protagonista di momenti importanti della vita della nazione, l’altra tranquilla (pure troppo) cittadina di provincia.

Niente di più lontano, ci verrebbe da dire. Ma in questi giorni c’è un filo che unisce questi due mondi paralleli, la vela!

Trieste attende placidamente l’arrivo della sua “Barcolana” ad ottobre, l’unica volta nel corso dell’anno in cui l’azzurro del mare è oscurato dal bianco delle vele, delle centinaia di barche che si sfidano per uno degli appuntamenti sportivi e mondani della nazione.

Trapani? Trapani attende la “sua” (ma solo per pochi giorni) America’s Cup con gli “Louis Vuitton Acts 8 & 9” dal 29 settembre al 9 ottobre.

Sarà una semplice coincidenza, ma alla fine di questa trasferta parto proprio per andare a caccia all’America’s Cup, e chissà che non riesca a farle un’intervista…

Ma torniamo a Trieste, la città del mare e del caffè. Ed è su questo splendido frutto, che a Trieste è un rito tanto quanto il morzello da noi, che proviamo ad immaginare un menù che prevedano in tutte le portate il divino chicco.

Cominciamo, d’obbligo con una sosta in uno dei grandi caffè del centro, e mentre sorseggiamo il nostro caffè, immaginiamo il menù.

Le tagliatelle al caffè, fatte con farina, uova, olio extravergine di oliva, caffè molto forte, acqua, panna, burro ed erba cipollina, tritata. Si tira la sfoglia per le tagliatelle unendo il caffè all’impasto. Dopo averle lessate si condiscono con burro, panna ed erba cipollina tritata.

Difficile trovare un abbinamento a questo piatto, troppo particolare il sapore. Fossero normali tagliatelle normali, un bel vino bianco con una buona acidità andava sicuramente bene. La presenza del caffè complica le cose.

Possiamo provare con due possibili tipi di vino: una Ribolla che abbia fatto un periodo di permanenza sulle bucce, cosa che conferisce al vino una struttura e un corpo paragonabili a quella di un vino rosso, ma possiamo pensare anche a un bel Merlot che abbia fatto il suo periodo di invecchiamento in legno che conferisce, in alcuni casi, quelle note calde ed avvolgenti di spezie, di caffè e cacao, di vaniglia che in un certo qual senso ricordano il piatto.

La scelta in caso di vitigno autoctono cadrà su uno Schioppettino. Vino tipico della regione che ha nella sua rotondità e nell’assenza di particolari spigoli le sue maggiori caratteristiche.

Passiamo al secondo, un filetto al caffè, preparazione che altre alla classica cottura del filetto in padella con un filo d’olio extra-vergine d’oliva, vede la presenza delle pungenti cipolle, dell’aglio, della farina del vino e dell’aromatico origano.

Regola vuole che al piatto si abbini il vino che si è usato nella cottura. un grande Cabernet Sauvignon che abbia il supporto sia del legno sia del gusto abbastanza marcato che ben si sposa con la carne alla piastra.

Se anche qui volessimo scegliere un vino autoctono direi un Refosco dal Peduncolo Rosso. Vino sicuramente più “nervose” e meno morbido del primo, che nel suo gusto tipicamente amarognolo, trova la migliore caratteristica per contrastare il sapore della carne.

Pochi problemi li avremo col dolce. Oltre al classico tiramisù, voglio pensare alla torta moka, dolce ricordo della mia infanzia e di mia nonna che la preparava sempre a noi nipoti

Si taglia il Pan di Spagna in due strati. Si prepara quindi una crema moka lavorando il burro in una terrina finché sia ridotto in crema, si aggiungono, a poco a poco, i tuorli e lo zucchero a velo e, alla fine, la mezza tazzina di caffè concentratissimo e freddo.

Spalmare gli strati della torta, bagnati di liquore, e infine tutto il dolce.

Vini da abbinare sostanzialmente due, un tradizionale Picolit, o un più particolare Moscato rosa.

Ma ora brindiamo, in alto i calici e buona serie B…evute!

Nicolò Ditta

Per informazioni critiche richieste o suggerimenti, tranne soldi o bottiglie di vino, scrivetemi pure a uctrapani@uscatanzaro.net

Serie …Bevute per Triestina – Catanzaro

Nei nostri migliori sogni non poteva che essere così, un inizio col Botto.

E dopo la prima partita casalinga ecco subito il piatto forte.
La più lunga trasferta di quest’anno si presenta: 1246 km di pura passione per seguire le aquile in questo primo appuntamento fuori dalle mura amiche.
Il bello è che la più lunga trasferta di quest’anno… saranno due!
Catanzaro – Trieste, e Catanzaro – Torino unite da questo “curioso” primato, la stessa esatta distanza dalla nostra amata città.
Se proprio vogliamo trovare una differenza, forse questa è un po’ più disagevole, ma sono dettagli.

Passiamo, quindi, in questo viaggio immaginario alla scoperta dei sapori e dei profumi della tradizione gastronomica, dalla Puglia al Friuli Venezia Giulia, i due estremi dell’Italia orientale.
Regione di confine completamente diversa dalla nostra, regione più aspra, più fredda, ma più ventosa di Catanzaro è difficile.

Di solito si dice che la cucina, e anche i vini (aggiungo io), sono lo specchio della regione in cui ci si trova.
La cucina friulana risente della sua particolare geografia.
L’aria dell’adriatico si mescola con le fredde correnti che scendono dalle Alpi, a formare un microclima molto particolare, con un’umidità estremamente variabile che però ha un pregio, quella di favorire la maturazione di uno dei simboli di quella terra, il prosciutto di San Daniele.

La gastronomia risente di questa unione di culture, di tradizioni e anche di clima, che sfociano in una forte differenziazione della cucina a seconda della zona in cui ci si trova.
La Trieste degli Asburgo ha lasciato in eredità profonde influenze nella gastronomia, come le lasagne con semi di papavero (e addolcite con lo zucchero) o la celeberrima wienerschnitzel. L’influenza ungherese si ritrova, invece, nel gulasch. Ma non possiamo dimenticare i prodotti tipici.

Oltre al citato San Daniele, troviamo la polenta che qua è una sorta di istituzione, servita appena cotta, oppure tagliata a fette e, quindi, abbrustolita o fritta.
La si accompagna praticamente a tutto, alla selvaggina, a uno splendido Montasio, agli altri salumi, oppure, spostandoci verso il mare, agli splendidi pesci appena pescati nelle bellissime acque dell’Adriatico.
Questa è la cucina di chi sta sui monti, degli alpini e degli abitanti del Carso.

Scendendo verso il mare la cucina cambia. Al posto della polenta si usa il riso negli splendidi risotti con il pesce o i crostacei, il delicato pesce dell’adriatico nel brodetto alla gradese. La jota, le minestre, gli gnocchi fatti in tutte le maniere, semplici, con gli spinaci o con le susine. Un piatto da provare sono, poi, le “patate in tecia”.

I dolci ci parlano di influenze austriache con una versione locale dello strudel, ma anche di dolci secchi (tipici di questa zona) e fritti, e di gustose crèpes.

Sosta d’obbligo sarà in uno degli storici caffè, di cui la città è patria, per gustare quello che, nel capoluogo giuliano, è un rito ormai istituzionalizzato.

Il Friuli è sicuramente la patria dei bianchi. In particolare, il Collio, e la zona dei Colli orientali del Friuli, le zone di produzione più vicine a Trieste, ci danno una serie di vini che spaziano dagli autoctoni Tocai (alla faccia degli ungheresi e della Unione Europea), ai pinot, alla dolce e profumata Ribolla Gialla, e al più vegetale Sauvignon.
Le zone ad oriente, danno vini di grande eleganza e freschezza.
La coltivazione in aree collinari e lo sbalzo termico ci danno vini freschi, fragranti, con un’ottima acidità e una buona sapidità che si prestano sia ad esser consumati giovani, sia ad invecchiare qualche anno, specie se subiscono un passaggio in legno.
Alcuni tra i grandi vini bianchi italiani arrivano da questa regione.

Non possiamo non citare i vini rossi e i dolci. I primi ci parlano di vitigni “internazionali”, il Merlot il Cabernet Franc e il Cabernet Sauvignon; oltre alla relativamente piccola produzione di Ribolla Nera o Schioppettino (chiamato così probabilmente perché il vino tende a rifermentare in bottiglia, e il tappo a “schioppare” quasi fosse sparato; un po’ come quando si sparava il sale grosso per cacciare gli uccelli dai vigneti).

I vini dolci, ovviamente, vanno per ultimi. Splendide bottiglie di Picolit e di Verduzzo concludono degnamente un pasto. Personalmente preferisco i grandi bianchi del Friuli. Vini che in gran parte non “fanno legno” come si dice in gergo, e che sono semplici da bere, freschi e immediati, conservando quello che è il più grosso patrimonio dei vini bianchi, ovvero l’acidità e la freschezza.

Una doverosa citazione la dobbiamo alla grappa, il principe dei superalcolici italiani.
Nel mondo ogni anno si consumano circa 40 milioni di bottiglie, a fronte di circa 160 milioni di cognac e le circa 350 milioni di whisky.

La grappa è ottenuta dalla distillazione delle vinacce (quello che resta dall’acino dopo averlo spremuto per ottenere il mosto). Le vinacce contengono numerosi componenti volatili, i più importanti dei quali sono l’acqua e l’alcol.

La distillazione è l’operazione fisica con la quale si separano alcune sostanze, trasformate in vapore tramite il calore, e che sono poi ricondensate grazie al freddo.
L’acqua normalmente bolle a 100°C, mentre l’alcol etilico bolle a circa 80°C; la conseguenza è che i vapori sprigionati dalla miscela in ebollizione contengono una percentuale maggiore di alcol della miscela stessa.

Per permettere la distillazione di una grappa che abbia un alto contenuto alcolico, bisogna eliminare quanta più acqua possibile dai vapori.
Il fenomeno fisico che si sfrutta è la differenza di temperatura di ebollizione tra l’acqua e l’alcol, al raggiungimento di una certa temperatura si formano i vapori che iniziano il loro moto ascensionale nella caldaia, e quando arrivano a contatto della parte superiore, che è ancora fredda, si condensano e ricadono nella massa sottostante.
Tra i vapori, però, si condenserà molta più acqua che alcol, per cui quando usciranno dal distillatore avranno una gradazione alcolica superiore ai vapori che si erano formati all’interno della caldaia.
La caldaia, ricordiamolo, è fatta di rame per le sue note proprietà termiche, e per la resistenza di questo metallo agli acidi delle vinacce.

La rettificazione è l’operazione che permette di separare le sostanze volatili di pregio da quelle meno pregiate. Nella distillazione il prodotto si divide in tre frazioni: testa, corpo, coda.
La testa è la prima parte di distillato che esce e si tratta di sostanze volatili che hanno un’ebollizione a meno di 78°.
Il corpo sono le sostanze che hanno un’ebollizione tra i 78° e i 100°; le code hanno un punto di ebollizione superiore ai 100°. Per la grappa si usa il corpo.

La grappa ha un grado alcolico di 50-60°. Ovviamente i vapori che escono dall’alambicco ne hanno un contenuto maggiore, ragion per cui si usa dell’acqua (in particolare acqua distillata) per ridurre il grado alcolico (anche se è più corretto parlare di percentuale alcolica), e portarla a quella desiderata. Questa, in sintesi, è la grappa.

Per convenzione le grappe si distinguono in:
Grappe giovani: che passano un brevissimo periodo in grandi botti di legno, e non risultano arricchite da aromi diversi da quelli che avevano al momento della distillazione, ed hanno un colore bianco o giallo paglierino.
Grappe invecchiate: che hanno soggiornato per un periodo più o meno lungo in botti di rovere acquistando, a seguito di questo periodo, caratteristiche diverse da quelle che avevano al momento della distillazione (sentori che di solito si definiscono “terziari”), e hanno un colore più carico, tendente al giallo dorato o all’ambra.
Grappe aromatiche: derivano da varietà di uve definite, appunto, “aromatiche”i cui particolari aromi vengono trasmessi al distillato (ad es. grappe di moscato, di malvasia ecc.).
Grappe aromatizzate: sono ottenute a seguito di macerazione con piante officinali, che conferiscono alla grappa un determinato aroma (ad es. grappa alla ruta, alla genziana ecc.).

Ma ora brindiamo, in alto i calici e buona Serie …Bevute!

Nicolò Ditta

Autore

Redazione

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