MAFIA: Ricorso contro scioglimento comune di Lamezia

Contro la sentenza del Tribunale amministrativo regionale della Calabria sezione Catanzaro, che nel maggio del 2003 ha respinto il ricorso presentato dall’ex sindaco del Comune di Lamezia Terme, Pasqualino Scaramuzzino, contro il provvedimento di scioglimento del Consiglio comunale per presunte infiltrazioni mafiose, l’ex amministratore si è appellato al Consiglio di Stato. L’ex sindaco di centrodestra, che ha governato la città per circa una anno e mezzo, ha infatti depositato, attraverso i suoi avvocati, appello con istanza di sospensiva della sentenza del Tar Calabria. Il consiglio di Stato, comunque, non ha concesso la sospensiva fissando invece una udienza di merito. A maggio del 2003, con la decisione di respingere il ricorso, il Tar della Calabria, in pratica, confermò in tutte le sue articolazioni giuridico amministrative il decreto con il quale il Presidente della Repubblica sciolse il consiglio comunale per infiltrazioni della criminalità organizzata. Il comune fu sciolto dal Consiglio dei ministri, nella seduta del 31 ottobre 2002, su proposta del prefetto di Catanzaro Corrado Catenacci. Un decisione che fece piena luce sulle presunte infiltrazioni mafiose all’interno del consiglio comunale.
Argomento portato alla ribalta della cronaca da una lucida dichiarazione del vice presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno criminale mafioso il 27 luglio del 2002. In quella circostanza, l’onorevole Angela Napoli, di Alleanza Nazionale, partito di governo, dichiarò senza essere smentita che “in Consiglio comunale siedono personaggi o parenti di personaggi che erano in consiglio comunale quando nel ’91 è stato sciolto per mafia”. Ma ancora prima il prefetto di Catanzaro, i primi di luglio, nomina, su delega del Ministro dell’Interno, la commissione d’accesso antimafia per l’esame della documentazione relativa all’attività del Comune. La notizia viene ufficializzata l’otto agosto del 2002. Gli atti vengono trasmessi al ministro dell’Interno i primi di settembre, che, comunque, decide per un supplemento di indagini. Il 20 settembre dopo due rinvii arriva la Commissione antimafia, il prefetto denuncia il tentativo di corruzione di un componente della Commissione di accesso. Gli atti vengo secretati. Una busta con un proiettile viene indirizza alla Commissione antimafia. Il 4 ottobre gli atti relativi alla visita della Commissione antimafia vengono inviati al Ministro dell’Interno.
Il caso Lamezia fu uno degli argomenti centrali, nel corso dell’audizione di martedi’ 8 ottobre del 2002 del ministro dell’Interno, Giuseppe Pisanu, da parte della commissione parlamentare antimafia. Il 10 ottobre del 2002, il vice presidente della Commissione antimafia riceve minacce di morte. Il 12 ottobre dello stesso anno, i risultati dell’accesso antimafia del Prefetto di Catanzaro vengono depositati alla segreteria della Commissione Antimafia. Il 16 ottobre del 2002 emergono le prime indiscrezioni. Il 14 ottobre il sindaco di Lamezia Terme querela il prefetto di Catanzaro perchè è convinto che “il prefetto, violando precise norme di legge, ha detto il falso” durante l’audizione del venti settembre davanti alla Commissione Antimafia. Il 31 ottobre del 2002, il consiglio viene sciolto per infiltrazioni della criminalità organizzata. Il 13 gennaio del 2003 l’ex sindaco deposita il ricorso perchè il decreto è “un provvedimento di rigore ingiustamente adottato”. Il 26 maggio del 2003 la decisione del Tar che respinge il ricorso.
Per il Tribunale Regionale Amministrativo per la Calabria sede di Catanzaro, che ha respinto il ricorso dell’ex sindaco, nell’emettere la sentenza non ebbe dubbi lo scioglimento del consiglio comunale di Lamezia Terme, per infiltrazioni mafiose, “si colloca pienamente nella logica di tutela preventiva”. Quindi per i giudici amministrativi “non risultò censurabile il percorso logico che ha condotto”, il Consiglio dei Ministri ed il Presidente della Repubblica a sciogliere il consiglio comunale anche perché vi erano ragioni sufficienti all’adozione del provvedimento stesso. Il Tar, inoltre, nella sentenza scrive che dall’esame complessivo delle relazioni d’indagine prefettizie, induce a ritenere sussistente il concreto pericolo che l’amministrazione comunale lametina possa aver subito condizionamenti pregiudizievoli nel suo agire da parte delle consorterie criminali della zona, sì da giustificare anche con finalità preventive ed a protezione della stessa libera determinazione della volontà degli amministratori l’avversato decreto di scioglimento”.
I giudici del Tribunale amministrativo, sulla base degli elementi analizzati hanno riconfermato “la circostanza oggettiva evidenziata nelle relazioni prefettizie inerente il legame parentale (ed inoltre la vicinanza anche negli affari) tra alcuni componenti del disciolto consesso amministrativo lamentino ed elementi di spicco della locale criminalità organizzata”. Circostanza questa, per il Tar “già di per sé allarmante, ma ancor più preoccupante se letta in abbinata a provvedimenti di favore (quali sussidi, contributi sanitari ed altre provvidenze del tipo) elargiti con continuità dalla disciolta amministrazione in pro di soggetti sicuramente riconducibili ad organizzazioni criminali”. E per i giudici amministrativi, poi, “non meno significative” sono le vicende “relative agli indebiti interessamenti da parte di taluni esponenti dell’Amministrazione comunale (come ad es. l’ex vicesindaco) con riguardo alla assegnazione di immobili già confiscati alla criminalità“. Vicende, scrivono i giudici del Tar nella sentenza, “in ordine alle quali la mancata emersione (almeno allo stato) di fatti penalmente rilevanti non si può certo tradurre in un giudizio di inutilizzabilità, ove invece quelle vicende correttamente sono state considerate rilevanti per trarre conclusioni negative circa il pericolo di indebita interferenza sull’azione amministrativa da parte delle potenti organizzazioni criminali della zona”.
Il Tar, poi, nella sentenza, fece riferimento ad un “noto professionista del luogo, legato da vincolo di affinità con un amministratore locale e rimasto tragicamente vittima di un agguato di chiaro stampo mafioso”. Ed in questo contesto richiama l’attenzione sulla “impressionante catena omicidiaria”, di cui, scrivono ancora i giudici, “la intimata autorità da conto nelle relazioni istruttorie allegate agli atti profilando una possibile interferenza, almeno in taluno di quegli episodi di matrice mafiosa, con le attività economiche connesse all’azione amministrativa dell’Ente locale”. Ed “in tale quadro sembra potersi leggere – è scritto nella sentenza del Tar – l’episodio delittuoso dianzi ricordato, come anche il tentato omicidio in danno di altro soggetto, dichiarato eletto alla carica di consigliere comunale (a seguito di vittorioso ricorso) e mai entrato a far parte del civico consesso sol perché ristretto da misura cautelare”.
E per i giudici amministrativo, inoltre “non meno preoccupante la situazione messa a nudo negli atti istruttori con riguardo al mercato degli appalti gestiti dall’Ente locale, in cui sono emersi collegamenti societari tra i soggetti aggiudicatari degli stessi, confermati anche dai ripetuti episodi di scambio di manodopera tra le imprese interessate, da affidamenti in subappalto e da contratti di utilizzazione di macchine ed impianti per l’esecuzione dei lavori”. Ed anche nell’ambito di tali collegamenti, il Tar scrive che “assumono rilievo le cointeressenze di soggetti non estranei agli ambienti della criminalità e forti sospetti l’Autorità intimata ha sollevato circa possibili intese previe delle ditte partecipanti alle gare di modo da condizionare gli esiti delle stesse, in un contesto in cui il ricorso quasi sistematico al sistema della licitazione privata ha di certo favorito le prospettate e non improbabili concertazioni tra le (poche) ditte invitate”.
In definitiva, il collegio, “pur nei limiti del sindacato di legittimità proprio” della sede giudiziaria, ha ritenuto che “l’amministrazione comunale non abbia mal governato”, ma “sotto i dedotti profili di censura, delle norme dianzi richiamate” legittimano “l’adozione del pur grave e contestato provvedimento di scioglimento, essendosi fatta carico di evidenziare con puntualità le circostanze fattuali aventi valore indiziario e sintomatico di possibili condizionamenti da parte della criminalità organizzata sull’azione politico-amministrativa dell’Ente locale disciolto”. Provvedimento che per il Tar non va inteso come sanzionatorio a carico degli amministratori, quanto piuttosto quale misura di prevenzione (ancorchè estrema) a presidio della legalità dell’azione amministrativa locale e della libera determinazione della volontà degli organi elettivi”. (CNN 10.02.2004)

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Redazione

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