Gli ultras oggi: cambiamento o declino?

Un pezzo tratto da un lavoro di persone che hanno vissuto le curve italiane per capirne i loro valori, le loro sensazioni, i loro pensieri. Non vi attendete racconti di storie Ultras, rimarrete delusi. E’ un saggio, armatevi di pazienza e’ un quadro interessante dell’evoluzione del mondo Ultras e i suoi perche’.

Gli Ultras oggi. Declino o cambiamento ?

di Antonio Roversi e Carlo Balestri.

II. Uno sguardo d’insieme

Iniziamo da alcuni dati statistici. Sappiamo che le statistiche che riguardano gli episodi di football hooliganism – in assenza di altri dati certi – possono basarsi unicamente sui resoconti giornalistici. Sappiamo anche che la letteratura scientifica ha avanzato numerose perplessità circa l’attendibilità di queste fonti e ha sostenuto che gli organi di stampa “are not simply passive reflectors of events such as football hooliganism, but play both an intentional and unintentional part in their construction”. Per quanto riguarda l’Inghilterra, Eric Dunning, sostiene ad esempio che il diffuso mito della scomparsa del football hooliganism come problema sociale ha trovato un forte sostegno nei mass media inglesi che “de-politicized the issue of soccer hooliganism” .
Per quanto riguarda l’Italia siamo in presenza di un problema analogo, come mostra la tabella 1.

Table 1
Incidents related to League matches in Serie A and B. Seasons 1980/81 – 1997/98
…………………………………………………….
Seasons Number of incidents Number of matches % incidents
…………………………………………………….
1980/81 17 620 2,7
1981/82 25 620 4,0
1982/83 41 620 6,6
1983/84 37 620 5,9
1984/85 45 620 7,2
1985/86 55 620 8,8
1986/87 59 620 9,5
1987/88 61 620 9,8
1988/89 65 686 9,4
1989/90 66 686 9,6
1990/91 73 686 10,6
1991/92 56 686 8,1
1992/93 58 686 8,6
1993/94 64 686 9,3
1994/95 40 686 5,8
1995/96 34 686 4,9
1996/97 27 686 3,9
1997/98 23 686 3,6
………………………………………………….
Source: Newspapers: Corriere della Sera, Resto del Carlino and Stadio/Corriere dello Sport. Per il 1996/97 e 1997/98: La Repubblica, La Gazzetta dello Sport, Il Resto del Carlino e L’Unità.

Come si vede da questa tavola, dopo aver raggiunto un picco nella stagione 1990/91, il numero degli incidenti tra gruppi ultras italiani tenderebbe a diminuire e mostrerebbe una forte riduzione soprattutto dal campionato 1994/95 in poi.
Contrariamente a Dunning, però, riteniamo che la diminuzione degli episodi “registrati” di football hooliganism non dipenda dalla minor attenzione riservata dagli organi di stampa a questo fenomeno.
E’ certo possibile che, dopo decenni di attenzione a volte anche ossessiva per questo fenomeno, nella stampa non solo sportiva sia subentrato un calo di interesse dovuto anche all’emergere con forza, nel corso degli ultimi anni, di nuovi temi (ci riferiamo, ad esempio alla sentenza Bosman, o alla forte spinta alla commercializzazione attuata dalle società di calcio). Allo stesso tempo, però, l’analisi degli importanti mutamenti avvenuti all’interno dello stesso mondo ultras negli ultimi anni, ci porta a supporre che, nonostante le cifre rilevino inevitabilmente valori sottostimati rispetto al numero di incidenti realmente avvenuti, la loro diminuzione corrisponda ad un trend reale.
Ciò significa affermare che gli episodi di football hooliganism stiano per scomparire dalla scena calcistica italiana come alcuni sostengono sia avvenuto in Inghilterra ?
La tesi che intendiamo sostenere in questo saggio non è questa. E’ nostra convinzione piuttosto che siano diminuiti gli episodi di football hooliganism di tipo tradizionale e che essi siano stati sostituiti, in parte, da nuove forme di conflittualità da stadio ancora, per molti aspetti, da scoprire ed esaminare.
Prima di discutere questo punto, però, è opportuno ricordare brevemente i tratti salienti e peculiari che hanno caratterizzato, e che ancora in buona parte caratterizzano questo mondo e lo distinguono da quello che è il modello hooligan inglese e nordeuropeo. Innanzittutto, sono profondamente diversi i contesti in cui i due fenomeni vanno ad inserirsi. In Inghilterra, patria del calcio, la passione per questo spettacolo sportivo ha coinvolto, sino a tempi recenti, prevalentemente la working class. Per avere un’idea della compenetrazione tra calcio e cultura operaia in Inghilterra, basti pensare all’architettura degli stadi che, con le sue forme, richiama molto da vicino la tipica struttura delle fabbriche; o ancora, come ci ricorda Taylor, l’origine operaia di molte delle squadre inglesi. E proprio in virtù di queste origini e di questo legame, come gli studi condotti dai colleghi inglesi ci hanno insegnato, il modello di football hooliganism inglese si manifesta come una sorta di prolungamento del tradizionale schema comportamentale della rough working class. Il gruppo hooligan proviene solitamente dagli strati più bassi della società ; adotta quello che è stato definito lo Stile Maschio Violento; tende ad aggregarsi soprattutto per tifare durante la partita e per aggredire i tifosi avversari; rivela, infine, una assenza di forme evolute e durevoli di coordinamento, di organizzazione e di promozione delle attività di curva. In Italia, invece, il legame tra il calcio e la classe operaia è, sin dall’origine, molto più labile e la passione per il calcio ha sempre coinvolto un gran numero di individui provenienti da tutti i ceti sociali. Così il gruppo ultrà, che pure nasce risentendo dell’influenza del modello hooligan inglese, è, nella sua composizione sociale, tendenzialmente più interclassista (rilevante, tra l’altro, è la presenza femminile al suo interno) e coniuga al tipico ribellismo giovanile una vocazione politica antisistema, mutuata dai gruppi politici estremisti che in quegli anni in Italia occupavano le piazze e fornivano un ottimo esempio di spirito di gruppo, durezza e compattezza . Questa caratteristica peculiare contribuisce a far sì che il movimento ultras mutui dalla sfera politica modi di agire e forme di organizzazione, e si doti di strutture organizzative stabili e complesse, capaci di mobilitarsi sia verso le attività interne (come l’allestimento di coreografie, la produzione di striscioni e bandiere) sia verso quelle esterne (la produzione e la vendita di gadgets, il tesseramento, le sottoscrizioni, il rapporto con le società di calcio etc).
Queste differenze hanno dato vita a due diversi sistemi di tifo. Il modello inglese, centrato su una serie di attività che esaltano il senso di gruppo ma non implicano, in particolare, un durevole e costante impegno extrapartita e nel corso dell’intera settimana, nè tantomeno gruppi di lavoro o responsabili di settore per le varie attività. E il modello italian, in cui il gruppo ultras è più proteso verso l’esterno ed è in grado di mettere in piedi, grazie alle sue strutture organizzative, manifestazioni carnevalesche di tifo che coinvolgono l’intera curva e richiedono un forte impegno economico, di lavoro e di coordinamento. Considerate le diverse caratteristche risulta evidente come anche la violenza abbia assunto un peso differente nei due modelli: per gli hooligans inglesi è il principale strumento di aggregazione e unione; per gli ultras italiani, influenzati dalla visione politica della violenza come strumento e non come fine, essa ha rappresentato, invece, una delle opzioni del gruppo. Il gruppo ultrà, infatti, affidava il proprio senso di comunità anche ad altre manifestazioni che venivano ad assumere un alto valore simbolico (quali, ad esempio, l’organizzare coreografie, l’autoprodursi il materiale, il partecipare, da militante, alle riunioni organizzative infrasettimanali). Proprio per la sua natura associativa complessa, il repertorio di norme non scritte che regolavano e controllavano i comportamenti dei membri del gruppo ultrà rispetto alla violenza era molto più complesso e preciso di quello delineato da Marsh e colleghi nel loro libro The rules of disorder sui comportamenti degli hooligans inglesi. Ad esempio, la violenza veniva praticata non indistintamente, ma solo in determinati casi e contro alcuni precisi gruppi di ultras considerati nemici; erano i componenti del direttivo (le persone che coordinavano e gestivano le attività del gruppo) che decidevano se ed in che modo praticare violenza; i più giovani potevano partecipare agli scontri solo dopo aver dato ampia prova di affidabilità non solo nel campo militare ma anche in quello organizzativo; era proibito coinvolgere negli scontri persone estranee alla logica ultrà come era proibito fare atti di vandalismo gratuiti.
Nello stesso tempo, però, il meccanismo di autoriproduzione dei gruppi ultras italiani ha presentato alcuni tratti comuni ai gruppi hooligan. Infatti, anche per quanto riguarda gli ultras lo stadio ha rappresentato la tappa conclusiva di un processo di socializzazione alla vita di gruppo che avveniva altrove – quartieri, bar, compagnie di amici, centri giovanili, gruppi politici – e aveva il suo punto culminante nello stadio, con l’ammissione di alcuni di loro nei gruppi di curva. Era cioè in altri spazi sociali, e non sugli spalti, che per molti iniziava, fino a qualche tempo fa, il cammino per diventare un ultras. Questo meccanismo richiama il modo in cui, secondo Dunning, si sono formate alcune football ends inglesi. Era in questi luoghi che avveniva l’apprendimento, da parte del giovane, di quella “grammatica etico normativa” consistente nel mostrare doti di affidabilità, coraggio, solidarietà e durezza, grazie alle quali il giovane alla fine era considerato uno del gruppo. Spesso, quindi, questo passaggio era propedeutico ad arrivare a far parte, a pieno titolo, della vita di curva e del gruppo ultras. A questo punto aveva inizio la fase dell’adattamento e perfezionamento del codice appreso al contesto specifico della curva, dove le gerarchie e le competenze erano molto più strutturate, formalizzate e vincolanti. Era così che le esperienze maturate fuori dal confine dello stadio venivano riassorbite dal gruppo ultrà classico in schemi tematici ricorrenti – la coralità assorbente, gli slogan ossessivi, la militarizzazione del gruppo, una rassicurante visione manichea – e ripopolavano continuamente l’immaginario del giovane tifoso di nuove figure mitiche e nuovi contenuti simbolici tratti dallo specifico contesto del calcio. Per questo motivo bisogna riconoscere che la cultura ultras dei gruppi storici è stata per lungo tempo una cultura forte, poichè si è dimostrata capace di trasformare la curva in un territorio in cui, al di là della provenienza sociale, delle motivazioni e degli stimoli soggettivi, dei differenti stili di vita, valevano per tutti i giovani tifosi le medesime regole e norme. Ed è stata una cultura che ha imposto una sorta di monopolio all’uso della violenza, indirizzandola solo verso nemici esterni, ed è riuscita a far tacere, dentro la curva, le differenti opinioni personali in nome della comune fede di gruppo. In sostanza è riuscita a dare ad ogni singola realtà del movimento ultras italiano tutte le caratteristiche di un microcosmo autosufficiente e totalizzante, capace di integrare emotivamente ogni membro nel proprio ruolo, nei propri doveri e nel senso di appartenenza ad una dimensione collettiva. Così nelle parole di un ultras: “Per me essere ultras è uno stile di vita: il lunedì fai il bilancio della domenica e per tutta la settimana ci si sbatte per i finanziamenti, i pullman, gli striscioni, i fumogeni. La domenica alle 9 di mattina sei allo stadio per i preparativi….Così si sono creati legami forti……Quello ultras è un fenomeno collettivo, di gruppo pesante” .

III. La morte di un ultras.

Alla fine degli Anni Ottanta, il meccanismo sopra descritto comincia ad entrare in crisi, una crisi tuttora in atto e che sta producendo varie trasformazioni. Proviamo ad analizzarne le ragioni, cominciando col raccontare un episodio che, forse, ha toccato ed è coinciso con l’apice della crisi delle norme che regolano il movimento ultras italiano: l’uccisione del tifoso del Genoa Vincenzo Spagnolo.
Il 29 gennaio 1995, in occasione della partita di campionato italiano Genoa – Milan, un giovane sostenitore del Genoa viene accoltellato da un piccolo gruppo di tifosi milanisti e rimane ucciso. L’episodio genera, oltre che una ondata di allarme tra l’opinione pubblica e una rinnovata richiesta di inasprimento delle misure repressive, anche una risposta simbolica: tutti i campionati di calcio vengono sospesi per una domenica.
Ma perchè muore quel giovane tifoso ? I fatti, in breve, sono questi. Come in molti altri stadi italiani, la curva del Milan non presenta più il quadro che era tipico delle curve italiane, caratterizzate da alcuni grandi gruppi ultras organizzati al loro interno e tra loro coordinati, e soprattutto capaci di esercitare una sorta di egemonia sui comportamenti dei tifosi della curva. Ora, la curva milanista ha smarrito questo carattere unitario ed i grandi gruppi hanno in parte perso la loro capacità egemonica. Soprattutto, si assiste al proliferare di piccole formazioni che operano in maniera autonoma, secondo logiche occasionali e spesso imprevedibili. Tra queste piccole nuove formazioni spontanee vi è anche un gruppo di giovani – conosciuti con il nome “Barbour”, per via della caratteristica giacca di moda tra molti giovani italiani – che vorrebbe entrare a far parte delle Brigate Rossonere 2, una nuova formazione ultras, nata dalla scissione di uno dei maggiori gruppi milanisti, le Brigate Rossonere appunto. Gli esponenti di questo nuovo gruppo decidono di fare una azione spettacolare per farsi conoscere e rispettare sia all’interno della curva milanista che fuori. Coinvolgono anche i giovani del gruppo Barbour e decidono di organizzare una spedizione punitiva contro i genoani.
Si tratta chiaramente di una decisione presa autonomamente senza consultare gli altri gruppi della curva (comportamento anni prima impensabile!).Il gruppo non utilizza il treno speciale dei tifosi milanisti, ma ne prende uno di linea, per sottrarsi ai controlli di polizia. Non indossa alcun emblema del Milan per non farsi identificare. Giunto nei pressi dello stadio Marassi di Genova ed individuato un gruppo di tifosi avversari ecco che scatta l’aggressione. Il giovane Vincenzo Spagnolo affronta il diciottenne Simone Barbaglia a mani nude, secondo la logica ultras, il ragazzo gli risponde piantandogli un coltello vicino al cuore. Spagnolo morirà poco dopo all’ospedale.
La notizia del decesso del giovane viene diramata via radio 5 minuti prima della fine del primo tempo. In quel momento, i tifosi genoani, che già sapevano che un loro compagno era stato ferito, reagiscono tentando di interrompere la partita. Dirigenti e giocatori delle due squadre accolgono le richieste della curva lasciando, nel secondo tempo, il campo vuoto e libero al dolore. Finita la partita rimane, però, la rabbia dei tifosi genoani. Sono disperati e furiosi: tentano invano di raggiungere il settore dei tifosi milanisti per vendicare il loro compagno. Per tutta la notte si scatena una guerriglia urbana secondo i codici comportamentali ultras che produce 7 contusi e molti milioni di danni. Sono bastati, invece, 4 soli secondi di violenza anomica per produrrre un danno irreparabile: la morte di Vincenzo Spagnolo.
Sette giorni dopo la morte di Vincenzo Spagnolo, nella domenica senza calcio, su iniziativa dei leader delle due tifoserie di Genova (Genoa e Sampdoria), viene organizzato un raduno nazionale tra ultras. Gli ultras si incontrano per riflettere – sul loro mondo, sui cambiamenti che ne hanno stravolto la fisionomia – nel tentativo di porre dei limiti alla violenza e di ridisegnare delle regole per un mondo che sembra non averne più.
Ma vediamo ora, prima di affrontare i contenuti del raduno di Genova, di delineare le ragioni oggettive della crisi.. Abbiamo già detto che il forte collante rappresentato dall’essere ultras non regge più nelle curve. L’esempio della curva del Milan è paradigmatico della perdita di unità e compattezza che colpisce, negli ultimi anni, il mondo ultras originario: è fin troppo facile ora per alcuni ragazzini senza storia dar vita a singoli gruppetti ed agire autonomamente. All’interno degli stessi gruppi si verificano attriti spesso pesanti (tali comunque da minarne la già relativa unità). I rapporti tra i grandi gruppi di curva sono divenuti tutt’altro che idilliaci.
Già nel corso degli Anni Ottanta, anni in cui il movimento si allarga in progressione geometrica anche sui campi minori e provinciali, al suo interno hanno luogo mutamenti strutturali rilevanti. Sono cambiamenti dovuti, in parte, al forte ricambio generazionale soprattutto della leadership (alcuni dei capi storici sono uccisi dall’eroina), ma anche al generale riflusso dei movimenti politici (la cui influenza aveva conferito a gran parte del movimento ultras un ulteriore elemento di identificazione ed unità) ed alla parallela disgregazione di molti spazi aggregativi e di socializzazione esterni allo stadio (che, come abbiamo visto, costituivano il primo gradino di identificazione per il giovane futuro ultras). All’interno del movimento ultras, si sviluppa così la tendenza a conferire maggior importanza al senso di appartenenza locale e ad utilizzare sistematicamente le contrapposizioni campanilistiche nella individuazione degli ultras da considerare nemici. Parallelamente prende sempre più piede anche la tendenza a considerare la violenza non più come strumento, ma come possibilità di espressione fine a se stessa. E’ per questi motivi che lo spirito di gruppo, basato sul culto della durezza e su una organizzazione paramilitare, assieme all’attaccamento morboso per la piccola patria, preparano il terreno ad un fertile inserimento di atteggiamenti razzisti e xenofobi. Alcuni di questi gruppi, che si dichiareranno poi, all’inizio degli Anni ’90, dichiaratamente di destra, cominciano a cercare di scalzare dalla leadership di curva i gruppi storici, esercitando una pericolosa attrazione con azioni militari/eroiche, cercando di sgretolare il consenso di curva degli altri gruppi anche dal punto di vista delle attività più espressive, arrivando anche a regolamenti di conti tramite lo scontro fisico.
Ma le dinamiche che attraversano le curve in questi anni ed i conflitti che ne scaturiscono hanno riguardato anche altri aspetti. Ad esempio quello economico. Il gruppo ultras ha sempre avuto bisogno, proprio per sostenere tutte le sue molteplici attività, di cospique entrate economiche che ha ricercato attraverso forme di autofinanziamento (tesseramento, vendita materiale) ma anche, in alcune situazioni, attraverso rapporti non sempre limpidi e chiari con le società di calcio. Diventa così inevitabile che, all’interno dei gruppi ultras, compaiano anche personaggi che, con molta disinvoltura, approfittano della loro posizione per ottenere biglietti omaggio dalla società e rivenderli per guadagnarci personalmente; o persone che, con il beneplacito del club, aprono dei punti vendita con il merchandising ultras. Questa situazione, degenerata dalla fine degli Anni Ottanta, ha dato avvio a polemiche, contrasti ed anche veri e propri conflitti che durano tuttora, tra una linea “affaristica”, una “dura e pura” che rifiuta perfino meccanismi minimi di sponsorizzazione, ed una terza fautrice della classica via di mezzo.
Più in generale, comunque, le curve finiscono per diventare specchio di una società sempre più atomizzata e sempre meno capace di produrre ragioni e valori dello stare insieme. Se, fino agli Anni Ottanta, lo stadio si poneva come punto d’arrivo di un percorso aggregativo che aveva inizio nel quartiere, nel bar, nei luoghi della politica, capaci di produrre legami veri e di coinvolgere grandi numeri, ora si assiste ad una frammentazione incapace di riprodurre le ragioni dell’identità comune e della socialità. E lo stadio, pur rimanendo luogo di socialità privilegiato, non può non subire le ripercussioni di un contesto così delineato .
Ecco allora diminuire l’interesse e la partecipazione alla vita del gruppo, venir meno quella militanza che fa dell’essere ultras uno stile di vità totalizzante e coinvolgente. Tutto ciò porta come diretta conseguenza un assottigliamento dei direttivi dei gruppi che perdono il controllo e l’egemonia sull’intera curva. Si indeboliscono i meccanismi del rispetto del più anziano e della necessità dell’apprendistato. Si assiste al proliferare di “cani sciolti”, giovani che non si riconoscono in nessuno dei gruppi presenti in curva e che, spesso senza esperienza, si rendono protagonisti di atti vandalici gratuiti e pericolosi, senza considerare ,nè tantomeno conoscere, la storia e le regole del movimento ultras. Anche i gemellaggi tra tifoserie, un tempo simbolo di rispetto ed amicizia tra diverse curve (ed i loro capi) tendono a rompersi o a non rinnovarsi. In una curva frammentata è sufficiente un solo gruppo contrario o un manipolo di “cani sciolti” che attacchi i tifosi gemellati per far saltare l’intera alleanza.
Ai problemi interni al mondo ultras si sommano poi quelli relativi alla repressione esterna. Alcuni gravi episodi avvenuti nel 1989 avevano portano il Governo italiano ad adottare misure eccezionali nei confronti dei fenomeni di violenza connessi alle manifestazioni sportive. Nasce così la legge 401 che introduce il divieto di ingresso allo stadio come misura preventiva da adottare contro chi viene denunciato per reati di violenza sportiva. Questa legge unita al diffondersi, in occasione di Italia ’90, di telecamere a circuito chiuso per riprendere i comportamenti degli ultras negli stadi italiani e nelle vie di transito dei tifosi, comincia a colpire alcuni dei responsabili dei gruppi, contribuendo così ad acuirne la crisi.

IV. Si apre una nuova fase.

E’ in un contesto così delineato che si consuma, dunque, l’omicidio Spagnolo. Il raduno ultrà organizzato la settimana successiva alla morte del tifoso diventa così la presa d’atto ufficiale e soggettiva, da parte del movimento ultras, della profonda crisi in corso. A Genova giungono i leaders di quasi tutti i gruppi ultras d’Italia, rendendo esplicite le contraddizioni e le profonde differenze che li caratterizzano. Ci sono quelli che hanno ottimi rapporti con la società e sono bravi a sfruttare, per i propri interessi personali, il giro di soldi legato alla vendita dei biglietti. Ci sono quelli che utilizzano il razzismo ed una politica di destra allo stadio per tenere unito il gruppo. Altri, molti meno, apertamente di sinistra. Ci sono alcuni vecchi (35 e più anni) che continuano a tenere le redini di qualche gruppo. Ci sono giovani di 23/24 anni che hanno acquistato, senza aver troppa esperienza, forte potere decisionale all’interno del proprio gruppo. L’incontro produce un risultato importante, un comunicato sottoscritto dalla maggior parte dei presenti dal titolo “Basta lame basta infami” (No more knifes, no more thugs). Nel documento sta scritto tra l’altro: “Basta con questi ultras che ultras non sono, che cercano proprio a spese del mondo ultras di fare notizia, di diventare grandi ignorando il male fatto (come in questo caso irreparabile). Basta con la moda dei 20 contro 2 o delle molotov e dei coltelli”.
Questo comunicato viene ferocemente criticato dalla maggior parte dell’opinione pubblica, dei giornali e delle forze politiche italiane. Quasi nessuno coglie l’importante elemento di novità che esso contiene. Quel documento, infatti, manifesta un preoccupato, seppur tardivo, riconoscimento della crisi in atto all’interno del mondo ultras e il timore che l’intero movimento possa cadere sotto i colpi di chi, con un comportamento vile ed irresponsabile – come il giovane assassino e il suo gruppo – nega i tradizionali valori del mondo ultras, ne tradisce lo spirito originario e fornisce così il pretesto per un ulteriore inasprimento della repressione da parte delle forze dell’ordine. Esercitando una severa autocritica per non aver compreso per tempo che l’escaltion della violenza senza regole veniva a minare le fondamenta stesse del movimento, gli ultras decidono da quel momento di ridisegnare i codici e le regole relativi all’uso della violenza e considerano infame, cioè fuori dal movimento, non più – o meglio non solo – chi tradisce il compagno o il suo gruppo, ma chi non rispetta le regole.
Già da subito dopo il raduno di Genova, si possono notare alcuni effetti. La maggior parte dei gruppi si attiene alle indicazioni del documento, alcuni arrivano persino a sconfessare la violenza come metodo lecito d’azione. Altri gruppi, invece, più o meno velatamente, non condividono e non accettano il divieto di usare armi. In generale, comunque, gli atti di violenza diminuiscono anche se, tra il febbraio 1995 e il giugno 1997, il numero di feriti da arma da taglio rimane molto elevato (14 persone: tutti feriti ad una coscia tranne un giovane marocchino ferito gravemente alla schiena da un gruppo di ultras bolognesi in spedizione punitiva ). E’ però significativo che, durante l’ultimo campionato 1997/1998, non vi siano stati feriti da arma da taglio. Altrettanto significativo è il fatto che molti degli accoltellatori pare provengano non tanto da gruppi organizzati, ma dalla schiera dei “cani sciolti”.
La reale diminuzione degli episodi di violenza non ci deve far sottovalutare, però, uno spostamento degli incidenti verso le Serie minori ed il rilevante numero di episodi violenti avvenuti negli stadi del Sud Italia. E soprattutto non ci deve far sottovalutare quello che appare come un vero elemento di novità di questi ultimi anni, vale a dire il numero molto alto di incidenti che coinvolgono ultras e forze dell’Ordine. Ci riferiamo non agli episodi che riguardano l’intervento delle forze dell’Ordine per evitare lo scontro fra due fazioni rivali, ma agli scontri diretti tra gruppi ultras e forze dell’Ordine, in assenza completa dei tifosi avversari. Dal febbraio del 1995 ad oggi, questo tipo di incidenti sono stati ben 28, su un numero di incidenti censiti per le sole due maggiori Serie pari ad 82,. Il rapporto tra ultras e forze dell’Ordine è, in altre parole, notevolmente peggiorato nel corso degli ultimi anni. Ha certo contribuito ad inasprire il clima la nuova legge votata in Parlamento subito dopo l’omicidio Spagnolo che ha reso ancora più restrittiva la norma del divieto di ingresso allo stadio. Con questo strumento le Forze dell’Ordine hanno strategicamente puntato, alcune volte in modo anche troppo esplicito, a neutralizzare i responsabili dei direttivi ultras (gli unici cioè in grado di esercitare un controllo, seppur parziale, sulla violenza nelle curve), tralasciando i “cani sciolti”, spesso i maggiori responsabili degli episodi di violenza.
La stessa presenza della polizia dentro e attorno gli stadi, che spesso rasenta una vera e propria militarizzazione del territorio, finisce per produrre un aumento, talvolta esagerato ed immotivato, della repressione. Sempre più spesso, poi, alcuni comportamenti non proprio lungimiranti delle forze dell’ordine hanno finito per innescare meccanismi di reazione da parte dei gruppi ultras o per sfociare in grosse ed ingiustificate cariche contro tutti i tifosi senza distinzione (per restare ad episodi recenti possiamo citare le forti critiche mosse dal governo britannico per il comportamento violento ed aggressivo della polizia italiana ai danni dei tifosi inglesi prima, durante e dopo la partita Italia-Inghilterra giocata a Roma nell’ottobre 1997)

Più in generale si può dire che il raduno di Genova apra una nuova fase. Da quel momento molti gruppi ultrà tentano, con più forza, di riproporsi come agenzia di socializzazione che non abbia come unico obiettivo quello di praticare violenza. Si impegnano così maggiormente nell’organizzare iniziative benefiche, quasi a sottolineare l’aspetto più solidaristico del movimento (dall’iniziativa nazionale di sostegno al Telefono Azzurro; agli aiuti umanitari che molti gruppi ultras italiani hanno raccolto per l’ex Jugoslavia). Ma soprattutto decidono di continuare ad incontrarsi. Infatti, nonostante le profonde differenze ed i contrasti – ed aldilà delle appartenenze di classe sociale ed anagrafica, i backgrounds culturali e politici – , si fa strada, tra i gruppi una consapevolezza nuova: che esista , per tutti loro, oltre le differenze, un’unità di fondo e di grado più alto; quella della comune appartenenza al movimento ultrà . Sembra quasi un paradosso, ma proprio nel momento di maggior debolezza interna, i gruppi ultrà, tradizionalmente rivali, si scoprono capaci di trovare punti di contatto e di azione comune tra loro. Ecco che, dunque, il maggior risultato del raduno di Genova, nel quale per la prima volta gli ultrà di tutta Italia si incontrano, si conoscono e si confrontano, diventa proprio la ricerca, sempre più marcata, di ulteriori momenti di dialogo tra gli ultrà, e proprio quest’esigenza porterà all’organizzazione di altri raduni .
La ricerca dell’incontro e del confronto interno al movimento ultrà è diventato, dunque, un modo per difendersi dalle degenerazioni violente interne, ma anche per fare quadrato contro un’opinione pubblica che considera gli ultrà unicamente come feroci criminali, un apparato istituzionale che, specialmente dopo l’omicidio Spagnolo, ha ulteriormente affilato le armi della repressione, ed un’industria calcistica che tende a sottrarre significato all’essere tifoso per relegare il frequentatore dello stadio al ruolo di semplice consumatore dell’evento sportivo.
Ecco così che l’essere ultrà viene anche a connotarsi, ed è questa la novità dopo l’omicidio Spagnolo, per l’appartenenza ad un movimento quasi di resistenza, che non lotta, come qualcuno scrisse , contro l’imborghesimento del calcio, ma contro il tentativo di imborghesire il fenomeno del tifo calcistico, e di distruggerne la cultura popolare di cui gli ultrà, in Italia, si sentono i legittimi depositari.

IV Conclusioni.

Per concludere vorremmo soffermarci su due punti.
Il primo punto vuole ribadire che, in Italia, anche se il meccanismo di autoproduzione dei gruppi ultrà ricordava molto da vicino il principio della segmentazione ordinata introdotto da Dunning, la base sociale degli ultrà non è mai stata composta prevalentemente dagli strati più bassi della società. Anzi, dalle uniche due ricerche da cui emerge la provenienza sociale degli ultrà svolte a Bologna (Roversi: Calcio, tifo e violenza) ed a Pisa (Salvini: Il rito aggressivo) appare chiaro come, nel primo caso vi fosse sì una maggior provenienza dalla classe operaia, ma di quella più integrata e meno marginale, mentre nel secondo caso la maggioranza degli ultrà provenisse addirittura dalla piccola borghesia cittadina.
Lo stesso meccanismo che vedeva i gruppi ultrà autoprodursi, attraverso l’alleanza di gruppi giovanili autonomi ma appartenenti ad una stessa comunità, è entrato pesantemente in crisi verso la fine degli Anni Ottanta, di fronte alla disgregazione degli spazi di socializzazione giovanile presenti nelle città. Così, oggigiorno, è molto più facile che avvenga il processo inverso, cioè che lo stadio si configuri come luogo di socialità primaria e che in esso prenda forma e struttura una comunità capace di porsi e di agire anche fuori dallo stadio, negli altri luoghi della città. Infatti, le curve degli stadi, nonostante i segnali di atomizzazione e di disgregazione di cui abbiamo accennato, rappresentano ancora uno dei luoghi forti di socialità.
Il secondo punto su cui vogliamo soffermarci è quello relativo alla violenza nel mondo del tifo calcistico. E’ questo un problema che, come rileva anche Dunning, in Italia, nonostante la diminuzione degli incidenti, rimane tuttora irrisolto. Forse perchè finora, nel nostro paese, l’unica risposta per arginare il fenomeno del tifo violento è stata l’adozione di misure d’ordine pubblico e di controllo sociale sempre maggiore.
Si è, insomma, pensato di delegare alle sole Forze dell’Ordine il compito di contenere, reprimere, e punire il tifo violento. Ed il risultato, come appare anche dagli ultimi dati in nostro possesso, è ancora una grande tensione intorno ai campi da gioco, ed un’esasperazione del conflitto, non tanto, come abbiamo visto, tra ultrà delle opposte tifoserie, ma tra ultrà e forze dell’ordine.
Per questo, per arginare, in maniera più efficace, i comportamenti violenti occorrerebbe introdurre, a fianco dei provvedimenti repressivi, misure di intervento sociale, con politiche non tanto mirate a controllare e reprimere, ma capaci di analizzare i motivi di questa violenza e di incidere, con un lavoro di lungo periodo, sulla mentalità che sta alla base di certi atteggiamenti. Da una conoscenza approfondita del fenomeno del tifo di curva, infatti, emerge un universo variegato e contraddittorio, un luogo di aggregazione sociale giovanile portatore anche di valori positivi ed energie potenti, di cui la violenza espressa in varie occasioni non rappresenta che uno degli aspetti. Inoltre, l’applicazione di una politica di intervento sociale consentirebbe tramite, ad esempio, l’ausilio e la mediazione di alcune agenzie sociali (ci si riferisce ad esperienze simili già radicate in altri paesi come, ad esempio: i Fanprojekte tedeschi; i Fancoaching belgi; la stessa Football Supporter Association in Inghilterra) di attivare un dialogo tra tifosi autoorganizzati ed istituzioni, premessa indispensabile non solo per creare un clima meno teso negli stadi, ma anche per evitare la marginalizzazione, qualunque sia la loro effettiva provenienza e composizione sociale, di gruppi autorganizzati di popolazione.

La seguente bibliografia si propone di offrire al lettore un ampio panorama dei lavori pubblicati in Italia sull’argomento.
Bibliografia:

AA.VV.: Football: i domini del calcio, Artificio, Firenze, 1990
Balestrini, Nanni: I Furiosi, Bompiani, Milano,1994
Balloni, Augusto – Bisi, Roberta (a cura di): Sportivi, tifosi, violenti, Bologna Clueb, c1993
Barbieri, Daniele- Mancini, Riccardo: E lo sport si fece mondo, La Nuova Italia, Firenze, 1996
Beha, Oliviero: Anni di cuoio: l’Italia di oggi allo specchio del calcio, Newton Compton, Roma, 1987
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Tratto da www.tifonet.it

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