Catanzaro Night News Dalla Redazione

E fuori nevica

Nei pressi del Ceravolo a nove giorni dal Natale e a qualche settimana dal fallimento


In certi giorni Catanzaro è una città freddissima. Giorni come questo. Un po’ si tratta di condizioni atmosferiche certo – una corrente siberiana è in effetti una buona spiegazione del gelo che si sente – ma poi è tanto, troppo altro ancora.

Piazza dei martiri ungheresi è deserta. La vecchia biglietteria guarda lo stadio Ceravolo imperterrita. Nella loro edicola i due fratelli giornalai se ne stanno rintanati dietro pile di riviste, protetti da maglioni pesanti e dalle facce più burbere che possano indossare. Oltre le finestre dei palazzi bassi e tozzi tutti intorno, le luci fisse rosso e arancio delle stufe fanno il paio con quelle intermittenti degli abeti addobbati per le feste. Un altro Natale è alle porte. È la vita che scorre, in fin dei conti. E in un giorno così è possibile persino prendere in prestito, parafrasandolo senza pudore, uno dei più famosi incipit di Charles Dickens:

Il Catanzaro è morto, tanto per cominciare. Su questo non c’è alcun dubbio.

Non c’entra il fallimento dell’Uesse, lontano ormai più di quattro anni; e neanche quello che stiamo vivendo come la replica inopportuna di una pessima rappresentazione. È morto lo spirito del Catanzaro, e forse dei catanzaresi, tutto qua. Lo stesso spirito su cui furono edificate le vittorie, e che per anni è sopravvissuto alle sconfitte rendendole, in fondo, meno amare. Di cosa sia composto quello spirito è davvero difficile spiegarlo, ma so di sicuro che ha a che fare con una certa fiducia nelle risorse di noi catanzaresi; fiducia che ha già scricchiolato nel 2006 e che oggi rischia di saltare miseramente per sempre.

Non so per voi, ma per me la partita del Catanzaro a due passi dal Natale rappresenta uno dei non luoghi in cui la memoria si rifugia, quando la morsa di una nostalgia che non ho ancora capito come definire, si fa più forte.  I guanti di lana, il fumo caldo delle Nazionali accese dal vicino di gradinata, il caffè a casa della nonna versato da una macchinetta messa sul fuoco esattamente al triplice fischio dell’arbitro di turno; il pandoro tagliato a fette e riscaldato in bilico, per qualche minuto soltanto, sopra il termosifone; il vermouth, i mandarini dalla buccia mai tanto preziosa come a Natale, in attesa della tombola. E ancora le interviste dopogara ai calciatori in accappatoio, i commenti alla classifica del vecchio zio e del cugino più grande,  le riflessioni sul calendario alla ripresa dalle vacanze.

Quest’anno non ci sarà partita a due passi dal Natale.

Abbiamo raschiato dal barile della dignità, della speranza, della passione. Abbiamo scomodato concetti ed utilizzato energie che forse avrebbero fatto comodo per altre battaglie. Abbiamo abbracciato qualunque illusione ci capitasse a tiro. E non è servito. Non è arrivata “una proprietà forte”, non sono arrivati i  moschettieri, i  magnati, e neanche semplici imprenditori appassionati di pallone. Una volta toccato il fondo si è solo preso a scavare: determinati, rabbiosi, come se cercassimo realmente una via d’uscita, ma nella direzione sbagliata…

E quando si va giù, oltre quel margine che si credeva essere il fondo, ecco che la peggiore rappresentanza degli esseri umani si avvicina danzante. Si traveste da buon amico, fa intendere di volerti salvare, lucida la bigiotteria spacciandola per oro prezioso. Si sa: vuole solo approfittare della situazione, magari senza concedere neanche il colpo di grazia.

Entro nello stadio dal cancello principale, quattro o cinque persone parlano sulle gradinate dei Distinti dell’ultima illusione di giornata. Un sorriso amaro, poi si discute della fine che inevitabile arriverà.  Ecco ciò che rimane dell’Hyde Park catanzarese. Si parla rassegnati, quasi come nel sonno, voltando le spalle ai tipi in casacca giallorossa che sgambettano sul campo fin quando è quasi buio, fino a scomparire, proprio come la scritta “CATANZARO” sui sediolini e le ultime tinte di giallo e rosso sopra gli spalti.

Siedo un momento e provo la sensazione dell’emigrante che tornando a casa trova di colpo i genitori  più fragili e vecchi: ha quasi paura che una parte di sé gli stia sfuggendo di mano e sente, per la prima volta con dolore, l’effetto che fa il tempo che passa. “Irrimediabile” è la parole che mi gira in testa. Con il pensiero ritorno un istante a Dickens: chissà che qualche fantasma del Natale non faccia visita agli Scrooge catanzaresi.

Cade un po’ di neve e ormai i miei appunti segnano già molte pagine. Ne verrà fuori un pezzo troppo lungo, decisamente poco utile. Non chiedo dimissioni, non invoco allontanamenti, non propongo nulla di nuovo. Silenzio, uno sguardo a Don Nicola, poi il ritorno sulla strada. Un bambino corre sul balcone, si volta verso casa e urla deciso: “Papà, svegliati! Fuori nevica!”.

Fabrizio Scarfone

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