Rassegna stampa

Avevo il vento per amico

Il servizio di Furio Zara – Corriere dello Sport-Stadio del 19.10.2003 – su Massimo Palanca

“Il duca calzò
la scarpetta a Cenerentola, ed il piede naturalmente entrò senza fatica.
In quel momento apparve la fata Smemorina, che toccò Cenerentola con
la bacchetta magica”. (Da “Cenerentola”, fiaba di Charles
Perrault)

Massimo Palanca nacque
due volte e la seconda volta fu a 26 anni, una domenica di marzo del 1979,
allo stadio Olimpico c’era un sole sfacciato e un cielo limpido che
sono in una Roma di quasi primavera, in tribuna c’era il re del Tonga
King Tata Ahau Tupou, fasciato di un vestito che era un orgasmo di colori
e con la Cadillac a motore acceso nel parcheggio. Quel giorno tutti seppero
che Cenerentolo Palanca portava il 37 di piede e che dal calcio d’angolo
sapeva fare una cosa che nessun altro, nessuno bene come lui, sapeva fare.
Segnava da lì, questo faceva. Quel giorno fece tre gol. E quando fece
il primo tutti pensarono: ”ma come ha fatto? Da lì è impossibile
segnare”. Non era impossibile, come dimostrò nella sua carriera
l’uomo col baffo da cowboy e il piedino di fata.

Diventò uno specialista. Ne segnò più
di dieci, da lì. Li segnò perchè ci provava. E perché
fiutava il vento, lo sentiva arrivare da lontano e gli chiedeva: aiutami,
perché se gli altri sentivano un alito innocente, lui ci indovinava
un tornado complice. “La tripletta alla Roma è uno dei ricordi
più belli della mia carriera. Mi viene in mente la faccia di Mazzone
a fine gara (fermiamoci un attimo. Qui ci piace ricordare la battuta finale
nella cronaca di quella partita che il grande inviato di allora Alberto Marchesi
fece sul Corriere dello Sport-Stadio. E Mazzone scosso, ma felice, che si
rivolge al cronista: “Arbè, credeme so veramente dispiaciuto,
me possino cecamme”. Stre-pi-to-so). Stava sognando ad occhi aperti.
Lui, Romano de Roma, che col piccolo Catanzaro va a vincere all’Olimpico.
“Fu un’emozione grandissima per tutti e io finii in copertina.
Ma devo dire che all’Olimpico in quegli anni segnavo spesso. Quell’anno
poi con la Roma avevo un conto aperto: anche all’andata segnai da calcio
d’angolo, ma il pallone schizzò sulla testa di Francesco Rocca
che stava vicino al palo e diedero autogol”.

Il gol dalla bandierina. Uno deve averci provato, almeno una
volta nella vita, per capire che riuscirci, riuscire a buttare la palla dentro,
è praticamente impossibile. Bisogna dare l’effetto al pallone.
Ma non basta. Bisogna essere precisi. Ma magari bastasse. Bisogna sperare
che il portiere sia spiazzato, o distratto. Ma trovare la stessa domenica
un portiere spiazzato e distratto è una cosa che capita due volte nella
vita. E la prima non ce ne accorgiamo. Forse bisogna cambiare la prospettiva.
Rovesciarla. Immaginare qualcosa che non c’è. Dal calcio d’angolo
la porta non si vede. Quello che si vede è un palo. La gola uno la
può solo intuire. “Io immaginavo una porta che non c’era.
Immaginavo una barriera da superare, ma anche la barriera non c’era.
Facevo finta di tirare una posizione, come quando hai una porta davanti a
te. Ci davo più effetto che potevo. A Catanzaro mi aiutavano due cose.
Uno: il vento. Lì c’è sempre un vento pazzesco che cambia
le traiettorie: io tiravo e speravo. Due: Ranieri, che si metteva sul palo,
spingeva un po’, disturbava il portiere, insomma cercava di rendermi
più semplice la cosa”

Oggi Palanca ha 50 anni, i baffi non se li è mai tagliati
“Mai vuol dire proprio mai: me li sono fatti crescere a 17 anni e da
allora non li ho toccati” e di piede fa sempre 37. “Per le scarpe
devo andare nei negozi specializzati per i ragazzi; almeno lì hanno
la taglia. Quando giocavo la Pantofola d’oro me la fece su misura”
Ha una moglie, Rosanna, sposata giovanissimo quando aveva 23 anni, e un figlio,
Marco che ha 25 anni e l’anno prossimo si laurea in giurisprudenza.
Ha una boutique di abbigliamento a Camerino “L’ho aperta quando
ancora giocavo, ma chi manda avanti l’attività è mia moglie”
e un incarico in Federazione: seleziona i giovani talenti in giro per il centro
Italia. Allo stadio ci va quasi mai, “Sono andato a vedere la nazionale
ad Ancona e ci ho messo un’ora per uscire dal parcheggio: ma è
possibile?”, alle spalle ha qualche esperienza nel calcio: direttore
generale del Real Catanzaro, poi allenatore di squadre dilettanti “Ma
non faceva per me. Mi piace di più lavorare coi ragazzini, come fai
a insegnare a uno di trentenni come si calcia una punizione?”.

La prima squadra vera è stata il Frosinone. 120.000
al mese. Ventimila le tiene per sé, centomila le manda a casa, in una
busta con un foglio di giornale arrotolato per coprire i soldi. La C di allora,
metà anni settanta, era una C ruspante. Capitavano cose come questa
“Una volta stiamo vincendo 1 a 0 a Matera. Subito dopo il gol i tifosi
di casa si arrampicano sulla rete di recinzione, la scavalcano, entrano in
campo e si piazzano a mezzo metro dalla linea laterale. Si mettono lì.
Zitti. Una specie di cordone tutto intorno al campo. E fanno paura. L’arbitro
prova ad allontanarli, poi ci rinuncia. Beh non la faccio lunga. A me e ai
miei compagni basta un’occhiata per capire cosa dobbiamo fare. Alla
fine vince il Matera 2-1. Quando mi dicono: cosa vuol dire fattore campo?
Ecco, io rispondo raccontando questo episodio: erano gli anni settanta e in
C non c’era la televisione, e queste cose capitavano spesso”.

A Catanzaro Palanca è stato O’ Rey. Timido, corretto,
mai un’espulsione in carriera, capobranco silenzioso: non alzava la
voce, gli bastava aprire bocca perché gli altri lo ascoltassero. Il
re di un pezzo d’Italia che prima era un posto dimenticato dal pallone,
poi una squadra vera (prima volta in A nel 1971 col presidente Ceravolo),
molte facce, molte storie. Catanzaro in tivù, nel Novantesimo minuto
di fine anni settanta, era la faccia di Emanuele Giaccia e la sua giacca a
quadretti beige stiel carta da parati tinello di nostra zia zitella. Era un
campo stretto e lungo, quasi in cinemascope, era un vento che sembrava di
sentirlo, anche in salotto, a casa nostra. Erano mischie in area, confusione,
e gol che erano rimpalli, tiri col singhiozzo che rimbalzavano. Era la coppola
di Mattolini, la faccia zingara di Majo, la testa pelata di Vito Cimenti,
l’aria da portiere di palazzo di Luigi Maldera. Erano i gol dalla bandierina
e il baffo di Massimo Palanca. Anni spettinati, di molti baffi e pochi pizzetti,
di molte pizzette calde al bar dello stadio, coi giocatori che dopo la partita
si fermano a parlare coi tifosi, e pochi cocktail alla discoteca trendy, anche
perché nessuno sapeva cosa volesse dire trendy. I giocatori avevano
fisici più normali, Big Jim era solo il fidanzatino di Barbie, non
il punto di riferimento muscolare di una generazione. Palanca, in quel calcio,
ci stava da dio. Trentasette: il numero di piede. Sessantuno: i chili, un
fringuello. Centosettanta: i centimetri di altezza, scarsi però. Sono
numeri da denutrito, non da ala sinistra fatta di fil di derro e talento.

Erano i tempi in cui Palanca praticava il training autogeno.
Prima della partita si chiudeva nel bagno dello spogliatoio col suo guru e
si convinceva di essere Pelè. “Pensa a cieli azzurri e prati
verdi”, sembra una canzone di Battisti, invece fu un’idea di Gianni
Di Marzio. Erano tempi belli e dannati. Erano tempi di fanciulle disponibili
“Ma quelle ci sono anche adesso. Io però non ho mai avuto questi
problemi. Mi sono sposato giovanissimo e poi non sono mai stato una bellezza.
Insomma: mai vista una che si girava per strada per guardarmi”, e pilloline
colorate che buttavi giù e ti sentivi Hulk “Io posso dire solo
questo: da noi, come in altre squadre, la pratica erano le due gocce di micoren
sulla zolletta di zucchero. Era una cosa che a quei tempi si faceva. E nessuno
si scandalizzava”. A proposito di letti bollenti, c’è una
bella storiella da raccontare. Ai tempi di Catanzaro c’era un compagno
di squadra di Palanca che sembrava un attore di Hollywood. Bello sul serio.
Di quelli che fanno gli occhi dolci alle ragazze e si sente la musichetta
in sottofondo. “Era un tipo incredibile. Consumava, diciamo così,
dappertutto. Persino in aeroporto, prima delle trasferte: puntava una hostess,
si assentava mezzora e tornava in fila per il check-in. Gli riusciva tutto
molto facile. Una volta però rischiò grosso: si fece una storia
con una ragazzina di Catanzaro, una che stava ancora con la famiglia. In giro
lo sapevano tutti. Un giorno capitò al campo di allenamento il padre
della ragazza. Voleva ammazzarlo di botte. Sul serio, s’era portato
dietro una spranga. Lui andò a nascondersi negli spogliatoi. Mazzone
invece andò dal padre infuriato, lo prese da parte, probabilmente lo
rassicurò, visto che dopo una lunga chiacchierata l’uomo se ne
andò e potemmo continuare l’allenamento”.

La storia di Palanca e Catanzaro ci dice che il Re, se fa
le valigie, perde corona e vassalli, pure il cavallo bianco si gira, gli scodinzola
il disprezzo e lo lascia a piedi. Capitò quando Palanca andò
a Napoli. Ci andò nel 1981 per un miliardo e duecentocinquantamilioni
più Cascione. All’epoca: una cifra. A Napoli però fu un
flop. “In una settimana sbagliò due rigori di fila. Uno in Coppa
Italia e l’altro in campionato. “Marchesi mi consola, dice: tranquillo
sono cose che possono capitare, due minuti dopo va da Guidetti e gli fa: il
prossimo rigore lo tiri tu. Beh, proprio un bel modo di darti fiducia, no?”.
Due anni dopo tornerà a Napoli, dopo una stagione a Como. Altro flop.
“In panchina c’era Santin, le cose andavano benino. Poi la società
lo esonera, indovina chi hanno preso?”. Risposta esatta: Marchesi. Da
quel momento Palanca il campo non lo vede più. Quello che vede è
il vuoto che si fa attorno a lui. “Era una cosa incredibile. Quell’estate
non mi chiamò nessuno. Nessuna squadra. Nessun contatto. Mi sembrava
una cosa impossibile, avevo trentenni e già mi davano per finito”.
Scelta drastica. Si riparte dal basso. Foligno, in C2. Lì Palanca rinasce.
Ancora Catanzaro. E’ l’86, lui ha 33 anni. Il primo anno in C1
fa 17 gol, visto cosa vuol dire prendersi una rivincita? A Catanzaro rimarrà
quattro campionati, smetterà a 37 anni. Da Re, come sempre. Segnerà
ancora dalla bandierina, tiri mancini e sinistri: molto fiuto, piede mignon,
fatine e cenerentole a dare l’effetto giusto e vento che ti soffia alle
spalle, ci vuole un attimo per lasciare tutti a bocca aperta.

La scheda

Il Re di Catanzaro
snobbato dai CT

Massimo Palanca è
nato il 21 agosto del 1953 a Loreto, in provincia di Ancona, ma è cresciuto
a Porto Recanati. Suo padre Renato, ex giocatore di serie C, era il custode
del campo sportivo. Sono sei fratelli e due sorelle, vivono in una casa che
si affaccia sul campo di calcio Anche Gianni, cinque anni più vecchio,
è stato un calciatore (Palermo e Taranto): adesso fa l’impiegato
comunale a Porto Recanati. Ha giocato con Camerino (dal ’70 al ’73,
praticamente adottato dal presidente di allora, Eligio Santocchi), Frosinone
in C, Catanzaro, prima B poi A, dal ’74 all’81 (195 partite e
70 gol). Poi Napoli, Como, ancora Napoli, Foligno e Catanzaro, fino al 1991,
quando smette a 37 anni, Per lui una sola presenza in azzurro, con la nazionale
che allora si chiamava sperimentale ed era allenata da Bearzot. Italia-Germania
Ovest a Genova nel ’79. Vinsero i tedeschi. Vanta due promozioni in
A e una in B col Catanzaro, con cui ha vinto il titolo di capocannoniere in
B nel 1978. Oggi ha un incarico in Federazione: seleziona i giovani talenti
in giro per il centro Italia. E’ un lavoro che lo appassiona.

(Si ringrazia Fantamor)

Autore

Massimiliano Raffaele

Scrivi un commento