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Nell’occhio del CicloPe spunti semiseri dalla terra di Nessuno

Contributo semiserio sul calcio e la partita del Catanzaro a Roma dell’Associazione Ulixes

l Ciclope si domanda mille perché… Non capisce molte, troppe cose degli uomini. 

È finito il tempo di diffidare di loro, di seguire le leggende degli avi che parlavano di un progenitore di quelle creaturine minuscole, un certo Nessuno, che aveva portato morte e disperazione nella loro terra. 

Finisce il tempo per l’odio e il risentimento, finisce anche la diffidenza più ancestrale, quella che si attacca con forza ai sensi e al cuore rifuggendo la comprensione e la ricerca di risposte. Le sventure portate da Nessuno sono ombre sbiadite nella memoria del Ciclope, racconti riportati mille e più volte con tonalità sempre diverse, particolari aggiunti o rimossi che hanno corrotto l’originario. 

Come fidarsi del passato riciclato e ripresentato con vesti nuove al volto del presente? Quello che è stato non stuzzica l’immaginazione, vive nella noia del già detto. 

Anche un Ciclope vive di quotidiane curiosità e lo spettacolo inusuale degli uomini alle prese coi loro piccoli drammi quotidiani interessa più della storia svogliatamente tramandata. Cosa si dicono ora? 

Il Ciclope sente qualcuno parlare di una storia scritta dalla svelta penna dell’assurdo. Parlano con gli occhi iniettati di rabbia e sangue di ventidue loro simili che rincorrono con foga una cosa rotonda, una sorta di otre di capra gonfiato con aria. Un oggetto sferico ma molto leggero, che rimbalza festante. Non capisce bene cosa sia quella cosa, quello che loro chiamano “calcio”. Intuisce, però, che quel trasporto che assume i toni della disperazione nell’argomentare di molti uomini ha un valore che va oltre la sfera che rotola su un campo verde. 

Si parla di una “squadra” che veste più colori, il giallo del sole che sorride agli uomini e il rosso del sangue che ha bagnato nei secoli la terra. Eppure non sono solo questi i colori che quegli undici indossano, portano nelle loro vesti i colori degli occhi degli uomini che credono in una cosa davvero stranissima, cioè che nella corsa di altri simili dietro a una palla di pelle bianca ci sia un orgoglio di popolo, ci sia un blasone costruito con le piccole aspirazioni dei singoli disordinatamente aggiunte di volta in volta. 

Il Ciclope capisce che una partita di calcio è più di uno sforzo fisico, non la si guarda come si guarda il tramonto limitandosi alla placida contemplazione. Negli occhi di quegli uomini, a migliaia arroccati su ripidi assi di metallo, c’è un bisogno di sentirsi parte, di sentirsi qualcosa, di mandare in rete una speranza. 

Dicono, però, che i “loro” undici abbiano tradito questo loro mandato morale. Dicono per una manciata di monetine d’oro. Dicono. 

Al Ciclope davvero non sembra normale quanto accade tra gli uomini. 

Perché sentire il bisogno di essere rappresentati da giovani uomini vestiti con colori sgargianti? Perché riporre strenuamente il proprio orgoglio di popolo in quello spettacolo? Perché trasformare undici atleti in undici sacerdoti e investirli del gravoso compito di offrire all’altare del domani ambizioni collettive? 

Il Ciclope non conosce con certezza la risposta ma ardisce ipotesi: forse perché quegli uomini hanno poco altro di cui andar fieri? Forse perché il senso di appartenenza, l’esigenza di comunità, devono trovare in qualche modo una manifestazione esteriore? Forse perché il riscatto di gente abituata a un lento subire scopre la velocità almeno nella corsa di quegli strani scarpini chiodati? Sì, una velocità a sprazzi ma che spesso evidentemente consola. 

Dicono che una volta quegli undici fronteggiavano corazzate di capitali lontane, altre città celebrate dalla storia e dai poeti. Ora visitano anonimi villaggi poco popolati con l’alone di desolazione che li accompagna fedelmente. 

Il Ciclope non si capacita di come la grandezza che questi uomini raccontano si sia dissolta nell’arrendevolezza dei miseri, di quelli disposti a girare la spalle alla memoria col palmo della mano voglioso di monete. Lo scopo di questo gioco serissimo che è il calcio è quello di mandare la sfera dentro una rete con le maglie strette il massimo delle volte possibile in un arco di tempo che è nulla rispetto all’eternità di certa gloria. Gol lo chiamano. 

Pare che gli undici uomini vestiti coi colori del sole e del sangue ne abbiano presi quattro pochi giorni fa, senza farne nemmeno uno pur avendo il supporto di migliaia di questi uomini che ora dibattono con rabbia impastata a delusione. Gli avversari erano di un villaggio senza nome e senza anima, roba davvero strana, inspiegabile al Ciclope. Sarà il Fato? Il destino alle volte si produce in voli folli, quasi al livello di Nessuno. 

La Ruota gira e tesse come vuole ma la tela che riveste le illusioni di questa gente è lisa, logora, mangiata dall’usura, un’usura di tutti i tipi intuisce il Ciclope. 

Questa è gente che ha subito, lo si capisce; gente che ha sofferto e che soffre; gente che lega purtroppo alla grandezza del passato la pochezza del presente e in quel nulla si tormenta. Ma perché non riescono a ripartire, a scagliare le delusioni con la decisione con cui il calciatore colpisce la sfera? 

Il Ciclope certo non lo sa ma non smette di domandarsi perché…

Autore

Salvatore Ferragina

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