Invasioni di Campo

Nel fango del dio Pallone

Nel novo numero della rubrica, questa volta curata da Fabrizio Scarfone, lo spunto è il testo sacro di ogni calciofilo che da il titolo al pezzo, dell’ex giallorosso Carlo Petrini. Lettura che consigliamo a tutti.

Secondo la mitologia greca, regalando il fuoco agli uomini Prometeo non fece alcun cenno ai tanti  e discutibili usi che di esso questi avrebbero potuto fare.
Al dio dell’Olimpo probabilmente non passò proprio per la mente che millenni dopo un imperatore chiamato Nerone potesse incendiare la sua Roma o qualche idiota speculatore i propri boschi.
Così è presumibile che nel 1846 i fondatori della prima squadra di Calcio Moderno nella cittadina inglese di Cambridge non avessero minimamente ipotizzato che gli atleti con l’ uso (o l’abuso) di sostanze medicinali avrebbero potuto incidere sulle proprie prestazioni o che le logiche del calcio-scommesse avrebbero rischiato di sostituirsi a quelle  del confronto atletico.
Evidentemente a quei tempi l’unica partita che al Cambridge Club Football interessasse vincere era quella giocata sulle carte dei regolamenti contro l’Università di Rugby, la quale perorava la causa di un calcio giocato con mani e piedi che prevedesse il contatto fisico diretto (il rugby, appunto).
Anni dopo, cambiati i costumi, affinate regole e preparazioni, il calcio degli anni 70/80 scopre l’uso sistematico delle sostanze dopanti e la simpatica pratica delle partite combinate.
Se dovessimo spiegare il calcio a chi non ne sa nulla (ad un tifoso dei Galaxy di Los Angeles, per esempio) l’unica cosa che non dovremmo fare è permettergli di leggere  “Nel fango del Dio Pallone” di Carlo Petrini.
Carlo Petrini è stato calciatore professionista negli anni 70, ha vestito la maglia di Lecce, Genoa, Torino, del nostro Catanzaro,  di Varese, Milan, Ternana, Roma, Verona, Cesena e Bologna.
Nel 1980, all’inizio del decennio padre delle peggiori mode di ogni tempo, venne travolto dallo scandalo del calcio-scommesse e una pesante squalifica pose praticamente fine alla sua carriera.
In quell’ autobiografico scritto,  Petrini scoperchia la pentola dell’ipocrisia sul “dorato mondo del calcio” e da testimone diretto dei fatti racconta di doping e abuso di farmaci, di scommesse, retroscena, sfrenatezze, corruzione e soldi in nero, raccontando tutto quello che “nel calcio si fa ma non si deve dire”.
Tra gli episodi narrati, la prematura scomparsa di Taccola, compagno di squadra e di “somministrazioni” di Petrini ai tempi del Genoa, giovane attaccante deceduto all’età di 26 anni. Le cause della morte del calciatore rimasero avvolte nel mistero, il ragazzo nel corso della stagione aveva sofferto di continue febbri, causate da un’infezione della quale i medici non sapevano dare alcuna spiegazione chiara.
Ciò che induce i calciatori (il discorso per le società è molto più semplice) a barare, talvolta rischiando seriamente di compromettere la propria salute (è il caso del doping), è sempre e solo la volontà di “monetizzare”.
Ancora più della ricerca affannosa della vittoria o del superamento dei propri limiti fisici, il calciatore sente tutta l’esigenza di massimizzare i profitti prima di giungere a fine carriera.
Una verità (e solo una) è che nell’Italia dei “bamboccioni”, nel paese in cui la carriera lavorativa inizia a trent’anni, i calciatori vedono la fine della loro vita professionale appena a trantacinque.
Forse i calciatori (e in particolare le migliaia di atleti lontani dalle luci della serie A) andrebbero rieducati e reinseriti come normalmente dovrebbe essere per chi abbia scontato una pena detentiva.
Non vuole essere una provocazione, ma un consiglio per chi avvicina i ragazzi al mondo del pallone: fategli capire che quel lavoro rappresenta solo una parentesi della loro vita. E che va vissuta come un gioco.
Il gioco più bello del mondo, in cui milioni di italiani, per quanto in maniera incantata, vogliono credere.
 
Oggi, nel nuovo millennio calcistico figlio della storica denuncia di Zeman dalle colonne de L’Espresso e delle intercettazioni di Calciopoli, risulta a dir poco difficile sfuggire alla tentazione di spiegare con il fenomeno doping la grande e sporadica prestazione atletica di un calciatore che per opinione diffusa non vincerebbe ai cento metri con il più panciuto fra i curvaioli.
E allo stesso modo dietro l’errore clamoroso di un portiere, la condotta scomposta di un difensore o l’incapacità di un’attaccante è inevitabile che si affacci il sospetto di una combine.
Ciò che viene minacciato, prima ancora dell’integrità fisica e morale di atleti e dirigenti sono la casualità e l’imperfezione che in qualche modo governano il calcio rendendolo perfetta metafora della vita.
Di questo passo anche una partita di lucide sgroppate sulla fascia del nostro “ Sindaco“ Ferrigno (nelle condizioni attuali) non verrebbe valutata per quello che naturalmente sarebbe: un autentico miracolo sportivo.
Fabrizio Scarfone

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